Ha scritto Kant: «Tutto ha un prezzo o una dignità.
Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una dignità».
Il Pantheon deve avere un prezzo, o può continuare ad avere una dignità?
La dignità del Pantheon è intimamente legata al cuore stesso della nostra identità: esso simboleggia la continuità tra il mondo classico e la nostra cultura moderna (è un’architettura antica ininterrottamente usata), mostra l’eccezionale ruolo che l’arte ha avuto in Italia (ospita le tombe di Raffaello e Annibale Carracci), racconta la nostra faticosa epopea nazionale (accogliendo i sepolcri dei re d’Italia).
Infine, rappresenta l’unità del nostro spazio pubblico, attraverso una comunione formale e sostanziale con la piazza che sarà interrotta dal pedaggio.
Questa interruzione è un peccato mortale, sul piano civile e politico: perché prende un pezzo di città e lo trasforma in attrazione turistica, disincentivando i romani dall’ingresso, e dunque dalla conoscenza di se stessi.
Ed è anche un peccato vero e proprio: di simonia, cioè di vendita di cose sante, visto che il Pantheon è anche una chiesa consacrata (e infatti una direttiva della Cei, già troppo disattesa, vieta di fare pagare per accedere alle chiese).
Il Pantheon – come tutto il nostro patrimonio culturale – è una scuola: di memoria, di futuro e di cittadinanza. I cittadini mantengono le scuole attraverso la fiscalità generale: ed è lì che bisogna guardare.
Togliere i biglietti a tutti i musei statali ci costerebbe circa 100 milioni di euro l’anno, mentre l’evasione fiscale viaggia sui 120 miliardi di euro l’anno.
Siamo sicuri che sia un buon affare mettere a reddito il cuore stesso dell’identità nazionale, invece che far pagare le tasse a tutti?
Il ministro Franceschini ha spiegato che gli introiti del Pantheon serviranno a compensare il denaro che egli sottrae al patrimonio storico e artistico di Roma isolando il Colosseo in una assurda autonomia plurimilionaria.
Egli ha citato il precedente del ministro Bottai: ma il capo di quel governo era Mussolini, per il quale «i monumenti millenari della nostra storia devono giganteggiare nella necessaria solitudine» (discorso del 31 dicembre 1925).
Ora l’ideologia è un’altra: non quella del fascismo, ma quella della supremazia assoluta del mercato.
Tanto che il Mibact potrebbe cambiare la sua sigla in Mimcin: Ministero per la mercificazione della cultura e della identità nazionale.
Ma, come ha scritto Michael Sandel, «assegnare un prezzo alle cose buone può corromperle.
Spesso gli economisti assumono che i mercati siano inerti, che non abbiano ripercussioni sui beni che scambiano.
Ma questo non è vero.
I mercati lasciano il segno. […]
Se trasformate in merci, alcune delle cose buone della vita vengono corrotte e degradate».
La cultura dovrebbe essere l’antidoto a un mondo dove il denaro misura e compra tutto: ma se avveleniamo l’antidoto, che speranze avremo di cambiare?
(Articolo di Tomaso Montanari, pubblicato con questo titolo il 13 gennaio 2017 su “la Repubblica”)