Una veduta dall’alto delle strade di Lugo
Con riferimento alla allusione in Emilia Romagna lo scorso 2 giugno il quotidiano “La Verità” ha pubblicato un articolo del titolo «Romagna sott’acqua? Non è colpa del clima», che ha basato questa base sulle di un paper del World Weather Attribution, un’iniziativa di scienziati che quantificano come il cambiamento climatico influenzi o meno l’intensità e la probabilità di un evento meteorologico estremo.
Lo stesso paper è stato ripreso da molti quotidiani (chi usando il condizionale, come “La Stampa”, «Lo studio sull’alluvione in Romagna: ecco perché (stavolta) non sarebbe colpa del cambiamento climatico»), chi con tono assoluto, come “Today”, «La scusa del clima per mascherare le colpe dell’alluvione in Romagna») ed è finito anche a “SkyTg24”, che parla di «dubbi degli scienziati».
Come riportato dall’articolo pubblicato sul quotidiano “il manifesto” del 6 giugno 2023, lo studio citato come fonte è contestato però da un gruppo di scienziati che fanno riferimento al portale Climalteranti.it, che in un articolo evidenziano alcune gravi limitazioni nello studio World Weather Attribution, fra cui la constatazione che non è stato pubblicato perché non è stato soggetto al processo di peer review (revisione dei pari), che viene effettuato prima della pubblicazione su una rivista scientifica.
Rilevano in conclusione che da un lato chi ha deciso quel titolo dello studio («Ruolo netto limitato del cambiamento climatico nelle forti precipitazioni primaverili in Emilia-Romagna») così netto e senza le necessarie precisazioni sui limiti dello stesso, si è prestato ad offrire contenuti ai negazionisti del cambiamento climatico, mentre dall’altro lato c’è chi – pur non negando esplicitamente l’influenza delle attività umane sul clima – ne nega la gravità e l’urgenza delle azioni di mitigazione.
È opportuno a questo punto rivedere storicamente la controversia sul riscaldamento globale che è una disputa riguardante le cause, la natura e le conseguenze dell’attuale riscaldamento globale.
Queste controversie appaiono tuttavia molto più vigorose a livello mediatico che non all’interno della comunità scientifica stessa, concorde sul fatto che questo sia di fatto causato dall’attività antropica grazie agli studi condotti in primis dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Intergovernmental Panel on Climate Change, IPCC).
Come ben ricostruita in un articolo di Sara Chinaglia, publicato il 4 dicembre 2022 sul sito online “Duegradi”, per capire quando è nato il negazionismo climatico dobbiamo fare un tuffo nel passato e oltreoceano, negli Stati Uniti degli anni ’60, quando i primi studi fecero emergere preoccupazioni su quello che veniva chiamato “effetto serra” e sulle conseguenze catastrofiche che avrebbe avuto sulle calotte polari qualora non fosse stato fermato in tempo.
Successivamente, molte compagnie petrolifere cominciarono a condurre ricerche interne a tal proposito, senza mai pubblicarle o renderle accessibili al pubblico.
Recenti studi hanno infatti fatto emergere che gli scienziati impiegati alla Exxon dimostrarono, già nel 1977, che effettivamente esisteva un legame tra i combustibili fossili e l’aumento di Co2 in atmosfera.
Siccome i risultati delle ricerche non sono mai stati pubblicati e, anzi, sono sempre stati tenuti nascosti, si può dire che questa sia stata la scintilla che fece nascere il negazionismo climatico.
L’esistenza di un effetto serra di origine antropica venne poi confermata da sempre più studiosi, arrivando anche alle orecchie della popolazione che cominciò, giustamente, a preoccuparsi e a chiedere a gran voce una soluzione.
Le aziende inquinanti, responsabili dell’aumento dei gas serra in atmosfera, iniziarono dunque a chiedersi come fare a continuare a macinare profitti indisturbate: fu così che crearono la Global Climate Coalition, un gruppo di lobby attivo formalmente dal 1989 al 2001, che cercò di assumere figure competenti in grado di trovare una soluzione per poter continuare ad emettere indisturbate.
Questa arrivò da E. Bruce Harrison, esperto in public relations, che si può dire essere il padre del negazionismo climatico.
La sua strategia consisteva nel “reframing the issue”, ossia “riformulare la questione”.
Egli trasformò l’effetto serra non più un fatto grave e reale, ma in un’eventualità incerta tanto quanto le sue conseguenze.
Ciò bastò per mandare letteralmente in tilt l’opinione pubblica, che in un battito di ciglia si riempì di teorie complottiste, di studiosi che rifiutavano l’esistenza dell’effetto serra e di scienziati corrotti che partecipavano a programmi televisivi per fare “propaganda negazionista”.
Che fine ha fatto il negazionismo climatico?
Fortunatamente, l’avanzamento della conoscenza scientifica ha fatto sì che oggi l’esistenza del cambiamento climatico di origine antropica sia accolta pressoché all’unanimità dalla comunità scientifica.
Uno studio pubblicato nel 2021, infatti, ha analizzato più di 88 mila articoli scientifici dimostrando che il 99% degli scienziati e delle scienziate concorda che il cambiamento climatico esiste e sia stato causato dalle attività umane (e in particolare, ad esempio, dalla combustione delle fonti fossili, promossa e portata avanti da aziende altamente inquinanti come Exxon).
Ciò nonostante, un report della Yale University mostra che esiste ancora una consistente parte di popolazione mondiale che ritiene che il cambiamento climatico non stia accadendo, non sia causato dall’uomo e che, più in generale, non sia una priorità.
La maggior parte di queste persone provengono da Paesi altamente vulnerabili alle conseguenze del cambiamento climatico, come Yemen, Bangladesh, Cambogia, Laos e Haiti.
In Indonesia, ad esempio, solo il 18% della popolazione intervistata ritiene che il cambiamento climatico sia causato dall’uomo.
Questo risultato non ci dovrebbe cogliere di sorpresa, poiché non è altro che il risultato di anni e anni in cui sono stati dati spazio e voce al negazionismo climatico.
Alla luce dell’attuale (quasi) unanimità della comunità scientifica nel considerare il cambiamento climatico di origine antropica, il negazionismo climatico ha, quindi, dovuto cambiare veste e passare dall’essere sfacciato e palese, a essere ormai sostituito da una più sofisticata versione composta da strategie comunicative.
Quali sono?
Deviare il discorso
Gli studiosi del cambiamento climatico hanno già dimostrato che le strategie per combatterlo, riassunte nei termini “mitigazione” e “adattamento”, dipendono da concrete riforme politiche.
Deviare il discorso verso ciò che dovrebbero fare gli individui deresponsabilizzando, invece, il ruolo della politica è una delle strategie per portare avanti il negazionismo climatico.
Ne abbiamo visto un chiaro esempio nelle notizie circolate durante l’estrema siccità che ha colpito l’Italia nell’estate 2022, costellata di spaventose immagini di un fiume Po quasi completamente secco.
Il dibattito che ne è emerso ha visto spostare la responsabilità in capo agli individui, con veri e propri manuali di consigli ai singoli cittadini invitandoli a docce meno lunghe, a prediligere una dieta a base vegetale, a non lavare le proprie vetture, etc.
Un’altra strategia consiste nel creare attrito tra attivisti e popolazione.
Un esempio molto recente riguarda il dibattito sorto a seguito delle manifestazioni degli attivisti ambientali che hanno “imbrattato” importanti opere d’arte.
Il dibattito che ne è emerso, molto polarizzato, ha infuocato l’opinione pubblica, che ha cominciato a discutere e prendere le parti, dividendosi tra chi riteneva giuste queste proteste e chi invece le riteneva eccessive.
Tutto questo non ha fatto che distrarre, ancora una volta, la popolazione dal capire chi sono i veri responsabili del cambiamento climatico e chi dovrebbe costruire delle concrete politiche ambientali.
Doomismo climatico
In questa strategia fa capolino la parola inglese “doom” (condanna) e raccoglie tutte quelle azioni e modalità comunicative volte a far credere che ormai sia troppo tardi per agire.
Questa strategia non fa che diffondere un senso di impotenza e di “ansia climatica”, portando molti a rinunciare a lottare e a chiedere politiche più concrete.
Ritardare
Completamente opposta alla strategia precedente, questa consiste nel rassicurare i più preoccupati, sostenendo che il cambiamento climatico è sempre accaduto, che è tutto sotto controllo, che le conseguenze non sono poi così gravi e che, soprattutto, c’è tempo per agire.
Questa strategia ha consentito di accettare e considerare rassicuranti e sufficienti i piani a lungo termine di riduzione delle emissioni di gas climalteranti promossi da numerose aziende (soprattutto petrolifere) e stati (quando in realtà sono giudicati lontanissimi dalla risoluzione della crisi climatica).
Con quali modalità si portano avanti queste strategie comunicative?
Per portare avanti queste strategie sono necessarie delle tattiche che servono a screditare la ricerca scientifica.
le solite frasi del negazionismo climatico
Queste possono essere riassunte nell’acronimo FLICC, coniato da John Cook, dottore in computer science e creatore del videogioco “Cranky Uncle” usato per insegnare le tattiche di negazionismo climatico.
Fake experts (falsi esperti): consiste nell’utilizzare una persona o un’istituzione non qualificata come fonte attendibile.
Un esempio è quello della lettera di 1200 scienziati e scienziate che negano l’esistenza del cambiamento climatico.
Nessuno (o quasi) tra loro, però, è competente in climatologia.
Logical fallacies (errori logici): si basa sul portare avanti argomentazioni che non seguono il filo logico del discorso, come uno dei manifesti più noti del negazionismo climatico: “il clima sta cambiando perché è sempre cambiato”.
Impossible expectations (aspettative irrealizzabili): consiste nel richiedere alla scienza delle prove inverosimili al fine di screditarla.
Un esempio è un’altra affermazione tipica dei negazionisti climatici: “com’è possibile prevedere gli effetti del riscaldamento globale se non si può prevedere con certezza nemmeno il meteo della prossima settimana?”.
Questo fa anche leva sulla scarsa conoscenza della popolazione sulle differenze tra meteo e clima.
Cherry picking: con questo termine, letteralmente “selezionare le ciliegie” si allude all’attività con cui si raccolgono attentamente le notizie necessarie a supportare una certa teoria (come se fossero le “ciliegie migliori”) ignorando tutte le altre.
Possiamo considerare cherry picking sostenere che il riscaldamento globale non esiste perché un dato periodo è particolarmente freddo.
Conspiracy theories (teorie del complotto): con questa strategia vengono create teorie “assurde” che vedono il cambiamento climatico come frutto di un piano malvagio.
Un ottimo esempio di personaggio pubblico che ha utilizzato questa tecnica per portare avanti teorie negazioniste è l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump, seguito da Jair Bolsonaro.
A conclusione di questa disamina storica sul negazionismo climatico, si ritiene che la controversia su di esso sia comunque inutile e soprattutto sterile, dal momento che – anche ammesso e non concesso per un attimo che per assurdo siano i negazionisti climatici ad aver ragione – non si può di certo negare quanto è successo e conseguentemente la necessità non solo di rimediare comunque ai danni subiti, ma di mettere in atto opere di prevenzione quanto meno sufficienti ad evitare che in prospettiva si ripetano danni identici in caso di futuri fenomeni estremi dello stesso tipo e intensità.
Se ad esempio si pensa alla impermeabilizzazione dei suoli che si registra nella maggior parte delle nostre città ed ai rispettivi sistemi di deflusso delle acque piovane, ci si accorge che le grondaie dei tetti così come le fognature sono state predisposte per raccogliere un certo quantitativo massimo di acqua piovana, per cui si avranno sempre delle alluvioni ogni volta che i quantitativi di pioggia avvengono in misure di molto superiori ed in un arco di tempo ravvicinato.
Risolvere problemi di questo tipo, oltre quelli di contenimento delle acque fluviali per evitare straripamenti, non è cosa di poco tempo, dal momento che occorre una seria programmazione, sostenuta dai necessari fondi finanziari, che sulla base di una analisi costi-benefici eviti di dover ricorrere in futuro ogni volta ai costi spropositati di ulteriori e devastanti emergenze climatiche.