Riceviamo e volentieri pubblichiamo.
Da ragazzo associavo il CAI a due elementi del paesaggio della montagna: i sentieri (sentiero del CAI nr…) e i rifugi (rifugio gestito dal CAI di….).
Pensavo e penso tuttora che il CAI sia (se la definizione di “associazione ambientalista della montagna” fa storcere in modo immotivatissimo il naso a qualcuno) una “associazione di protezione ambientale della montagna”.
Se fossi un iscritto al CAI sarei contrario a far brillare la roccia per costruire o ristrutturare un rifugio, rinuncerei a quella ristrutturazione o a quella nuova costruzione perché, come pensavo da ragazzo, credo che una “associazione di protezione ambientale della montagna” debba difendere l’incontaminata bellezza dei luoghi e che questi debbano essere raggiunti in modo discreto.
Ma ci sono ancora un paio di cose su cui soffermarsi.
La prima.
Dai tempi in cui ero ragazzo ad oggi quanto è stato costruito, in termini di strutture ricettive, di impianti, di strade, nelle valli alpine, lungo i crinali, in prossimità delle vette?
Chissà, se mettessimo assieme tutte le opere e le strutture, quale enorme colata di cemento in termini di chilometri quadrati ne risulterebbe.
Se il CAI ne sta prendendo atto lo trovo una manifestazione di responsabilità e di coerente attaccamento alla propria missione.
La seconda. Io non sono un iscritto al CAI, ma, a titolo personalissimo, mi piacerebbe il Cai fosse “un’associazione ambientalista tout court” nel tempo dell’involuzione geoclimatica della nostra montagna e del nostro pianeta.
Per via delle nuove e disperate connessioni ecologiche che uniscono la montagna alla pianura nel tempo dei cambiamenti climatici.
Penso al valore della “risorsa acqua”: dalle sorgenti d’alta quota al mare attraversando colline e pianure.
Penso al refrigerio dei nostri boschi per le persone alle prese con gli effetti sanitari delle ondate di calore delle metropoli.
Penso a nuove forme di “agricoltura di montagna” possibili a quote più elevate rispetto ad un tempo.
Sembra che l’involuzione geoclimatica della montagna e del pianeta ci spingano proprio verso nuove interazioni tra habitat diversi e artificiosamente contrapposti. In questo frangente storico e geo climatico francamente risulta fuori posto, fuori tema, l’interlocutore politico di turno che si attarda con insistenza a difendere “modelli di sviluppo nati morti” o, peggio, da dell’ ambientalista, come fosse una offesa e non un merito, a chi si batte per fermare il degrado delle funzioni ecosistemiche della montagna e dei suoi boschi.
Dante Schiavon