Se per un attimo chiudi gli occhi astraendoti in una spiaggia appartata di Serifos – isola delle Cicladi tra Kitnos e Sifnos – quando li riapri dopo pochi secondi scopri l’incanto di stare in un luogo senza tempo, antico e primordiale.
Qui dove secondo il poema omerico passò Ulisse nel suo ritorno ad Itaca e dove il ciclope Polifemo gli lanciò una roccia enorme fuori dalla baia di Koutalas, le spiagge sono teatri all’aperto dove le rocce carsiche delle insenature proteggono i grandi palcoscenici d’acqua cristallina che vira gradualmente dal celeste al blu profondo, e non c’è niente che ammicchi o che lontanamente ricordi il mondo urbanizzato e il turismo consumistico, con sana indolenza isolana e ritmi lenti ogni cosa è stupendamente non contaminata, e di una semplicità disarmante.
COME LE PICCOLE STRADE CHE VANNO verso l’alto, ripide e strettissime, che presto ridiscendono aprendo a paesaggi lunari e dalle quali, in lontananza, si vede il mare blu cobalto dell’Egeo.
Solo roccia, cielo e mare, e un sole forte che incendia temperato dal Meltemi, un vento che può sollevarsi da un momento all’altro e quando soffia non ti abbandona più per giorni, può tormentarti e farti bruciare gli occhi, spingere avanti il corpo mentre spira forte, creare potenti onde increspate sulla superficie dell’acqua marina, oppure carezzarti la pelle e impedirti di sudare anche nelle ore di forte calura.
A parte il soffio del vento, attorno si ha una rara percezione di silenzio appartato, la quieta dimensione esistenziale di rilassatezza dei sensi, tanto che a Serifos dopo poco si diventa felicemente pigri, un’apatia attiva nel godersi i tempi morti del riposo, delle quiete passeggiate, le lunghe nuotate verso il largo.
IL PAESAGGIO DELL’ISOLA È FATTO di piccole montagne di roccia chiara calcarea brulla puntinata da muschi verdi, con rarissimi alberi, che alte digradano lievemente o a picco contrastano con l’azzurro del mare infondendo all’ambiente un conio selvaggio di natura.
Sopra questa superficie terrestre non violata dalle rare edificazioni, con rari pascoli, coltivazioni di viti, fichi e mandorli, le basse e armoniche case cicladiche geometriche, rigidamente pittate di un bianco acceso che acceca, così come le piccole chiesette ortodosse disabitate dalle cupole blu che decorano il paesaggio.
La mano dell’uomo ha fatto il minimo indispensabile per la sopravvivenza a Serifos, i pali dell’illuminazione sono di legno, così come i muretti in pietra ai lati delle strade hanno lo stesso colore delle rocce, e c’è un’unica strada asfaltata ad anello, quarantacinque chilometri per girarla tutta, ma i tre autonoleggi dell’isola hanno solo cento utilitarie a disposizione.
A PARTE L’AFFOLLATO LUNGOMARE del porto di Livadi, dove si concentra tutta l’attività commerciale di piccole taverne, pochi negozi di souvenir, alimentari e una banca, o nel vicino Livadakia, un villaggio turistico con un campeggio in grande espansione, già superato il litorale e prendendo la strada verso nord che porta verso le spiagge più belle di Agios Sostis e Agios Ioanis, dove l’ombra la puoi trovare solo sotto le grandi tamerici dai tronchi possenti e ramificati, si può trovare una taverna rurale senza insegna che prende il nome della cuoca, Margarita, che definire autentica è poco, coi pochi tavoli all’aperto e una cucina che si trova al pianoterra di una casa fatiscente dove abitano i ristoratori.
LÌ IL PROPRIETARIO, UN UOMO GRASSOCCIO e sudato che porta ai tavoli, t’invita a sceglierti vicino ai fornelli le cose da mangiare, che sono i cibi tipici dell’isola, agnello, pollo, peperoni ripieni, e un vino rosato rustico e aspro, come quelli che si bevevano nelle nostre campagne negli anni ’50.
L’ isola ha anche una serie di pozzi per fornire acqua potabile alla popolazione tutto l’anno, anche nei periodi di alta stagione.
Quando transiti in auto in giro per l’isola a velocità ridotta e sulle strade scopri affacci vertiginosi, però per molti tratti non sembrano esserci segni di vita, solo cielo, roccia e mare intorno, sia che ti spingi a nord est dove c’è il Kastomonastiro Taxiarchon, un monastero ortodosso medievale pieno di affreschi, o decidi di andare a sud ovest a Megali Livadi dove ci sono i resti della vecchia miniera di ferro, dove puoi vedere ancora le rotaie e i carrelli arrugginiti che erano spinti verso il rudere dello scuro ponte metallico, una costruzione surreale sospesa su una baia popolata di eleganti yacht che una volta serviva come molo per caricare di materiale i battelli.
QUI CI FU NEL 1916 IL PRIMO SCIOPERO sindacale greco, i minatori protestarono per le disumane condizioni di sfruttamento, e si rifiutarono di caricare il minerale sulla nave Manousi con destinazione Glasgow, incitati dal loro leader Konstantinos Speras.
Intervenne la polizia e la rivolta fu sedata nel sangue, quattro lavoratori rimasero uccisi, fu il prezzo che pagarono per ottenere la riduzione dell’orario a otto ore. I cinquecento minatori reagirono con lapidazioni di militari, il tenente della gendarmeria fu ucciso e il suo corpo gettato in mare, anche altri due poliziotti morirono, molti rimasero uccisi, solo l’intervento del sacerdote Yannis Rotas riuscì a fermare il conflitto.
OGGI È UN PICCOLO BORGO SPERDUTO e disabitato, due taverne in riva al mare, in fondo l’edificio fatiscente dove vivevano i proprietari della famiglia Graumann.
Chora invece è abbarbicata su una collina, in basso i vecchi mulini a vento, sopra il dedalo di vicoli e piccole case bianche strette una all’altra dai quali si raggiunge una piccola piazza ventosa, e ancora più in alto i resti dell’antica Kastro romana con la vista vertiginosa sul porto.
Sul lungomare di Livadi c’è il locale italiano Il porto vecchio, un corpo estraneo nella gastronomia dell’isola autentica ma monotona, tradizionale e ripetitiva, gestito dal torinese Massimo Turrini, alto e magro, scuro di carnagione e di capelli, che arrivò prima a Mykonos dove lavorò come commesso in un negozio di abbigliamento, poi dopo la crisi greca si spostò da queste parti dove aprì prima un caffè bar, «un angolino di quaranta metri quadri, una novità pazzesca», e poi il ristorante.
«QUI NON C’ERA NEANCHE L’ASFALTO, era una strada di terra battuta, buttavano l’acqua con la pompa per evitare che le poche macchine che passavano alzassero la sabbia» racconta.
«Il mio arrivo ha aiutato molto la crescita del commercio sull’isola, lo chef Yiannis è un greco di Atene, ha fatto una scuola di cibo italiano, abbiamo in cucina i bengalesi che hanno imparato a fare la pizza da un napoletano», dice divertito, poi mi confessa che l’isola vergine, quella che definisce «una chicca», ha fatto innamorare molti, soprattutto francesi e italiani che hanno comprato casa già vent’anni fa e sono suoi clienti, «spero che Serifos non si snaturi, perché si sta sviluppando veramente tanto, c’è chi si fa la villa con uno scavo proibitivo di quindici metri, questo a me non piace» dice preoccupato.
MI HANNO DETTO CHE STANNO PROGETTANDO un imponente complesso turistico sulle spiagge più intatte dell’isola, quelle di Kalo Ambeli e Alevrakia, raggiungibili solo attraverso impervi sentieri sterrati, imprenditori greci hanno acquistato una grande area dove costruire.
Lui dice che inevitabilmente anche Serifos si trasformerà, «ma resterà il fascino di Chora, del promontorio, la qualità delle spiagge senza sdraio e ombrelloni, il colore del mare», perché qui, contrariamente da altre isole più blasonate (e globalizzate) «anche in piena stagione puoi ancora trovare il tuo angolo e poter dire: sono solo».
(Articolo di Angelo Ferracuti, pubblicato con questo titolo il 20 luglio 2021 su “L’Extraterrestre” allegato al quotidiano “il manifesto” di pari data)
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