Nel suo programma elettorale la coalizione di centro destra ha proposto di introdurre in Costituzione il presidenzialismo, ossia l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.
L’ipotesi del presidenzialismo vede al momento contrari non solo i partiti di opposizione: per questo motivo il 7 maggio 2023 il Ministro degli Esteri Antonio Tajani ha dichiarato che «il premierato potrebbe essere una soluzione più gradita alla maggioranza delle forze in Parlamento».
Al termine della giornata di incontri alla Camera con le opposizioni sul tema delle riforme, l’On. Giorgia Meloni ha dichiarato a sua volta: «Mi pare che vi sia una chiusura netta su un’elezione diretta del presidente della Repubblica, mentre mi sembra ci siano posizioni più variegate sull’elezione del presidente del Consiglio».
Ha poi specificato: «Voglio fare una riforma ampiamente condivisa.
Ho avuto il mandato dagli italiani e tengo fede a quel mandato.
Non mi interessa immaginare un uomo solo al comando, ma dico basta ai governi costruiti in laboratorio, dentro il Palazzo.
Bisogna legare chi governa al consenso popolare».
Riguardo al “mandato popolare di riformare la Costituzione”, che avrebbe ricevuto, va fatto presente anzitutto che a settembre del 2022 i cittadini italiani hanno votato per eleggere deputati e senatori, a loro volta incaricati di esprimere la fiducia al Governo, a cui non spetta ad ogni modo di riscrivere la Costituzione dal momento che il suo art. 138 attribuisce ad ognuna delle due Camere il compito di deliberare sulle leggi di revisione della Costituzione: l’On. Giorgia Meloni non ha mai parlato di premierato in campagna elettorale ed ha i numeri solo grazie al premio di maggioranza che le è stato conferito da una legge elettorale al limite della legittimità costituzionale.
Nelle intenzioni dichiarate pubblicamente da Meloni, riportate da Rai News, si vorrebbe far passare l’idea che l’obiettivo della riforma sia solamente dare alla cittadinanza la possibilità di votare direttamente il capo del governo, per creare un “rapporto diretto” con le persone e “garantire stabilità”.
Ma la presidente del Consiglio non ha chiarito quali poteri aggiuntivi voglia dare al suo ruolo per evitare le crisi di governo, visto che l’unico esperimento di questo tipo di forma istituzionale è fallito proprio perché non è stato in grado di “garantire stabilità”.
Riguardo alla presunta “garanzia di stabilità”, è bene sapere che le ultime elezioni parlamentari che si sono tenute in Francia la scorsa primavera hanno mostrato che neppure l’attuale sistema francese può garantire una stabilità sicura: all’Assemblea nazionale, infatti, la coalizione che sosteneva il presidente Emmanuel Macron ha ottenuto 245 seggi contro i 289 necessari per avere la maggioranza.
Al momento, il governo francese guidato dalla prima ministra Élisabeth Borne non ha la fiducia dell’Assemblea nazionale: questo richiederà al presidente Macron di dialogare con le opposizioni ogni volta che vorrà far passare una legge.
Anche i sistemi parlamentari in cui il capo del governo è espressione del voto del Parlamento, e non di quello diretto dei cittadini, hanno dimostrato di non assicurare stabilità: l’esempio principale nell’Ue è quello della Germania, che ha cambiato quattro cancellieri negli ultimi trent’anni.
Anche la Spagna è relativamente stabile, con cinque presidenti del governo dal 1992 al 2022.
L’unico sistema di governo dove è esistita una forma di premierato con elezione diretta del primo ministro è stato Israele: in questa repubblica parlamentare, dal 1992 al 2001, il capo del governo è stato eletto direttamente dalle persone, ma il modello è stato abolito nel 2002, perché non aveva garantito la stabilità che si sperava di ottenere.
L’instabilità dei governi italiani non è dunque frutto esclusivamente del sistema istituzionale o della legge elettorale, che è cambiata diverse volte negli ultimi anni.
Un esempio è la legislatura nata dalle elezioni del 2013 in cui si sono alternati tre presidenti del Consiglio del Partito democratico (Enrico Letta, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni), non perché un partito ha lasciato la maggioranza, ma per decisione dei leader del Pd in quegli anni.
Dal momento che il dibattito fra presidenzialismo e premierato è tuttora aperto, è bene analizzare le forme di governo che si sono consolidate nel mondo.
LA VIA AMERICANA – Presidenzialismo: il capo dello Stato guida anche il governo
Al modello americano guarda un pezzo di Fratelli d’Italia, nella consapevolezza tuttavia che una ipotesi così radicale non possa fare strada nemmeno all’interno della maggioranza di centrodestra.
In sostanza, il presidenzialismo “puro” prevede che il capo dello Stato, eletto dal popolo, sia anche e contemporaneamente il capo del governo.
In sostanza, se l’Italia adottasse questo modello, i cittadini andrebbero a votare il presidente della Repubblica che allo stesso tempo diventerebbe presidente del Consiglio.
Cambierebbe anche il rapporto tra governo e Parlamento, scelti in due diverse tornate elettorali: l’esecutivo non può sciogliere le Camere, ma nemmeno le Camere potrebbero “mandare a casa” il governo, perché entrambi espressioni della volontà popolare.
Negli Usa, come noto, la via per destituire un presidente eletto è quella dell’“impeachment”, la messa in stato d’accusa per motivi gravi e lesivi dell’interesse della Nazione.
LA VIA FRANCESE – Semipresidenzialismo: rimane la fiducia esecutivo-Parlamento
Tra il presidenzialismo americano e il parlamentarismo italiano, si inserisce la via di mezzo del semipresidenzialismo francese.
In sostanza, il presidente della Repubblica viene eletto con un sistema a doppio turno, con ballottaggio tra i due più votati al primo turno.
Il capo dello Stato nomina poi il premier e ha una posizione di grande influenza sul governo.
E tuttavia, l’esecutivo resta soggetto alla fiducia o sfiducia da parte delle Camere parlamentari.
Anche con il semipresidenzialismo ci sono due elezioni diverse per capo dello Stato e Parlamento, quindi potrebbe verificarsi la situazione in cui la maggioranza parlamentare non rispecchia le vedute del capo dello Stato.
Si tratta, dunque, di una via di mezzo che pure è presa in considerazione dalla maggioranza e che incontra qualche favore anche nelle opposizioni.
Però, se l’intento è davvero quello di arrivare in fondo al cammino delle riforme in un clima di unità, sarà difficile vedere traslato in Italia il modello adottato a Parigi.
LE VIE MEDIANE – Tra il premierato, il cancellierato e l’idea di sfiducia costruttiva
Il premierato potrebbe essere una vera e propria “creazione” italiana.
Se n’è parlato molto anche nell’ambito della riforma costituzionale targata Matteo Renzi.
L’idea-chiave è che il premier sia eletto dal popolo, e che gli venga attribuito il potere di nominare e “licenziare” i ministri (oggi la nomina formale di un ministro viene dal presidente della Repubblica).
Inoltre, il premierato prevede che il governo venga in qualche modo “blindato” rispetto al potere del Parlamento di sfiduciarlo, ad esempio attraverso l’istituto della “sfiducia costruttiva”.
La sfiducia costruttiva esiste anche in Germania dove il modello è quello del cancellierato, che prevede un governo “forte” e stabile ma comunque vincolato al Parlamento.
Premierato, cancellierato e sfiducia costruttiva rispondono alla necessità di una maggiore stabilità delle istituzioni e su questa piattaforma sono possibili intese trasversali.
Va sottolineato che nessun Paese europeo adotta il presidenzialismo come forma di governo, con l’eccezione di Cipro.
La stragrande maggioranza degli Stati europei è una repubblica parlamentare o una monarchia parlamentare, dove i reali sono figure cerimoniali senza poteri significativi.
Ci sono solo quattro Stati membri dell’Unione europea che ricorrono al cosiddetto “semipresidenzialismo”: Francia, Portogallo, Lituania e Romania.
Visto che il presidenzialismo “non s’ha da fare”, perché sia l’opposizione che parte della maggioranza si sono mostrate inamovibili nel mantenere intatte le funzioni chiave del presidente della Repubblica come garante della coesione nazionale e della Costituzione, l’On. Giorgia Meloni è passata al piano B del premierato, senza però avere ancora chiarito come si differenzia dalla nostra Repubblica parlamentare.
Il punto fondamentale della riforma in tal senso, se mai si farà, è proprio questo: come cambierà il rapporto di potere tra il o la presidente del Consiglio e il Parlamento?
Ancora nessuno della maggioranza di destra ha voluto rispondere a questa domanda.
Avrà un primato legislativo?
Potrà sciogliere le camere?
Gli o le sarà concesso di scavalcare le funzioni legislative dell’emiciclo a suon di rafforzati DPCM (i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, oggi concessi solo in caso di emergenza e che abbiamo conosciuto durante la pandemia da Covid-19)?
Sfortunatamente, il semplice termine premierato non è sufficiente a chiarire tutti questi interrogativi, perché forza o debolezza del premier sono decisi da chi vuole fare la riforma e non dalla letteratura scientifica sul tema.
Purtroppo però, nelle sue dichiarazioni generaliste e roboanti da campagna elettorale, l’On. Giorgia Meloni non ha spiegato assolutamente niente, limitandosi a sbandierare come un semplice slogan quella che potrebbe essere la riforma costituzionale più importante della storia della Repubblica italiana, capace di trasformarne per sempre l’architettura istituzionale e, di conseguenza, cambiare per sempre il rapporto tra cittadinanza e governo.
In Italia, nonostante sia sempre rimasta in vigore la repubblica parlamentare prevista dalla Costituzione, non sono mancate le proposte di riforma costituzionale per conferire poteri maggiori al presidente del Consiglio.
I tentativi di “premierato” sono stato storicamente due.
Il premierato nella bicamerale del 1997
Nella storia recente un tentativo in questa direzione è stato fatto con la “Commissione per le riforme istituzionali” del 1997. Questa commissione era bicamerale, composta da 70 tra senatori e deputati, nominati dai presidenti della Camera e del Senato e voluta dall’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema.
«La Commissione bicamerale individuò due possibili tipologie di riforma della Costituzione: una simile al premierato, assegnando più poteri al presidente del Consiglio, come la nomina e la revoca dei ministri, ma senza prevederne l’elezione diretta, e l’altra più vicina a un modello semipresidenzialista», ha raccontato Volpi.
Il 4 giugno 1997 le due ipotesi furono messe ai voti e prevalse il modello semipresidenzialista con 36 voti a favore, contro i 31 del premierato (tre astenuti).
Immagine 1. Un articolo de L’Unità del 5 giugno 1997 che racconta l’esito del voto tra i due modelli di riforma – Fonte: Archivio online L’Unità
All’epoca avevano votato a favore del premierato i Democratici di sinistra (da cui in seguito sarebbe nato il Partito democratico), il Partito popolare italiano, Rifondazione comunista e i Verdi, mentre il Polo della libertà di Silvio Berlusconi e la Lega Nord di Umberto Bossi avevano a favore del semipresidenzialismo.
Da quel momento in poi la Commissione bicamerale lavorò per un anno a un testo di riforma costituzionale di tipo semipresidenziale senza nessun risultato, e a giugno del 1998 i lavori della commissione si interruppero a causa di divergenze politiche tra centrodestra e centrosinistra.
Secondo fonti stampa dell’epoca, il principale artefice del fallimento della riforma costituzionale in quel caso fu proprio Berlusconi, fondatore e capo del partito che in questi giorni con le dichiarazioni di Tajani ha riaperto all’ipotesi del premierato.
Il sindaco d’Italia
Quello di D’Alema non è stato l’unico progetto di riforma che prevedeva maggiori poteri per il presidente del Consiglio.
A febbraio 2020 il leader di Italia viva Matteo Renzi, ospite a Porta a porta su Rai1, ha proposto l’introduzione del cosiddetto “sindaco d’Italia”, ossia un presidente del Consiglio eletto direttamente dai cittadini sul modello dell’elezione dei sindaci delle città con più di 15 mila abitanti. In questi comuni il sindaco viene eletto direttamente dai cittadini, con un eventuale secondo turno di ballottaggio tra i due candidati più votati se nessuno raggiunge il 50 per cento più uno dei voti al primo turno.
Al momento la proposta di Renzi e Italia viva, da cui è partita anche una petizione online, non ha avuto nessun seguito parlamentare.
«Il sistema di governo dei comuni e il parlamentarismo che vige attualmente a livello nazionale sono difficilmente sovrapponibili: stiamo parlando di sistemi diversi tra loro», ha spiegato Volpi.
In ogni caso la proposta di eleggere direttamente il presidente del Consiglio è stata accolta anche da Azione ed è stata inserita nel programma elettorale che i due partiti hanno presentato alle elezioni politiche del 25 settembre 2022.
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C’è però da dire che in questi 8 mesi e mezzo il Governo dell’On. Giorgia Meloni sta di fatto mettendo in atto forme di premierato ante litteram.
Ricorso eccessivo alla decretazione d’urgenza
È prevista dall’art. 77 della Costituzione, ai sensi del quale il Decreto Legge (d.l.) è «un atto con valore di legge adottato dal Governo nei casi straordinari di necessità e urgenza, che viene emanato dal Presidente della Repubblica e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale.
Entra in vigore il giorno stesso o il giorno successivo alla pubblicazione.
Il decreto legge deve essere convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni, altrimenti perde efficacia sin dall’inizio.
Le Camere, tuttavia, possono regolare con una legge i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto legge».
Il 5° comma del successivo art. 87 stabilisce che il Presidente della repubblica «promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti».
Ma allo stesso riguardo il 1° comma dell’art. 74 della Costituzione dispone che «il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione».
Non rappresenta certo una novità la constatazione che dietro l’attribuzione al governo del potere di adozione di decreti legge sul presupposto della straordinaria necessità ed urgenza si annidi uno degli strumenti più insidiosi per mettere a dura prova l’equilibrio dei poteri e per sottoporre a tensioni o a vere e proprie torsioni la forma di governo parlamentare.
Già all’inizio degli anni ’80 una crisi di governo si era aperta proprio in seguito all’uso della decretazione d’urgenza da parte del governo, uso (o abuso) che, in una occasione, aveva indotto l’allora Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, a non emanare un decreto legge.
L’episodio ha suscitato naturalmente le attenzioni della dottrina, ed il tema della legittimità e della correttezza dei poteri presidenziali di emanazione era stato oggetto di un rinnovato interesse e della prima, più sistematica, analisi.
Sul finire degli anni ’80 la Corte costituzionale, con una sentenza certamente più nota perché essa concludeva un aspro conflitto di attribuzioni sollevato dalla Corte dei Conti contro il Governo e il Parlamento a proposito della sottoposizione degli atti governativi con forza di legge al controllo della magistratura contabile, ha posto l’accento sul potere di controllo spettante al Presidente della Repubblica in sede di emanazione degli atti governativi di normazione primaria.
La Corte, in quell’occasione, nel ribadire che l’esercizio della funzione legislativa da parte del Governo vede, in primo luogo, nel Parlamento il titolare dei controlli costituzionalmente necessari aveva però sottolineato con molta chiarezza come tra quei controlli andasse «annoverato anche quello spettante al Presidente della Repubblica in sede di emanazione degli atti del Governo aventi valore di legge ai sensi dell’art. 87, quinto comma della Costituzione» controllo che – ha aggiunto la Corte – «è ritenuto di intensità almeno pari a quello spettante allo stesso Presidente sulle leggi ai sensi dell’art. 87, terzo comma, della Costituzione».
Affermazione, questa, che non solo ha sciolto ogni dubbio sulla esistenza e dunque sulla piena legittimità del potere di controllo sull’emanazione di un decreto legge, ma ha lasciato altresì chiaramente intendere come l’intensità di questo potere possa essere certamente più profonda ed estesa di quella concernente l’autorizzazione alla presentazione dei disegni di legge di origine governativa.
D’altra parte la quasi coeva legge n. 400 del 1988, nel tentativo di razionalizzare l’uso del decreto legge, disciplinandone anche il procedimento di emanazione, aveva previsto, all’art. 15, primo comma, che il decreto approvato dal Governo fosse presentato per l’emanazione al Presidente della Repubblica, con una formula che ben lasciava intendere l’autonomia del momento dell’emanazione ed il correlativo potere presidenziale di controllo.
È da questo incontestabile riconoscimento della spettanza al Presidente della Repubblica di un potere di controllo che è necessario partire per riflettere intorno al caso che non venga emanato un decreto legge perché il Presidente della Repubblica con messaggio motivato alle Camere chiede una nuova deliberazione.
In tale eventualità sorge spontanea la domanda su quante volte il presidente della Repubblica può respingere una legge e chiedere ai parlamentari di rivedere alcuni o tutti i suoi contenuti.
Non si tratta di «capricci» ma di poteri conferiti dalla Costituzione a chi occupa la poltrona più alta del Quirinale.
Ma se poi il Parlamento rivede il testo e il Capo dello Stato continua a non esserne convinto, può rimandarlo indietro di nuovo?
E quanto può durare eventualmente questa sorta di ping-pong a tre fra Quirinale, Palazzo Madama e Montecitorio?
In tempi piuttosto recenti, Sergio Mattarella, in qualità di Presidente della Repubblica, disse ad un gruppo di studenti: «C’è un caso in cui posso, anzi devo, non firmare: quando arrivano leggi o atti amministrativi che contrastano palesemente, in maniera chiara, con la Costituzione. Ma in tutti gli altri casi non contano le mie idee: ho l’obbligo di firmare».
Un’affermazione che è sembrata collocarsi tra il dovere istituzionale di difendere la Costituzione (peraltro, questo è il suo compito principale) e il dovere però anche di doversi rassegnare, perché questo gli impone il 2° comma dell’art. 74 della Costituzione, ai sensi del quale «se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata.»
In pratica, il meccanismo stabilito dalla Costituzione è il seguente: il Parlamento approva una legge e la spedisce al Quirinale affinché venga firmata e promulgata dal presidente della Repubblica.
Il Capo dello Stato, però, potrebbe trovare dei vizi di legittimità costituzionale.
A questo punto, chiede con messaggio motivato alle Camere di rivedere il testo originale, segnalando quali sono i vizi riscontrati, e di fare una nuova deliberazione.
Il Parlamento agisce come meglio ritiene opportuno e rimanda per la seconda volta il testo al Quirinale.
Il Presidente sarà tenuto a promulgarlo, che gli piaccia o no.
Camera e Senato dovrebbero dunque dare dei segnali di maturità e di buon senso, perché quando si vedono respingere una legge hanno due possibilità: valutare le perplessità sollevate dal Quirinale e modificare la prima versione della legge oppure ignorare quanto detto dal Presidente, non correggere nemmeno una virgola, lasciare il testo invariato e rimandarlo al Colle, dove il Capo dello Stato sarà costretto a promulgare la nuova legge.
In quest’ultimo caso, la Costituzione verrebbe rispettata alla lettera ma si creerebbe inevitabilmente, in maniera più o meno involontaria, un incidente istituzionale tra le massime cariche dello Stato.
Ad ogni modo, se il presidente della Repubblica avverte per la seconda volta che non ci sono le condizioni per promulgare la legge e che il testo rischia di sconfinare, se pubblicato in Gazzetta Ufficiale, nel reato di attentato alla Costituzione, ha un’ultima arma: evitare di risponderne penalmente in prima persona e rifiutare nuovamente la promulgazione.
A questo punto, interverrebbe la Corte Costituzionale per risolvere il conflitto di attribuzione sorto tra Parlamento e Presidenza della Repubblica.
Tanto per riportare qualche esempio di quel che è successo nei tempi più recenti: ecco quante volte i presidenti della Repubblica hanno respinto una legge durante il loro mandato:
- Francesco Cossiga (1985-1992): 22 volte (ecco perché lo chiamavano «Picconatore»);
- Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006): 8 volte;
- Sandro Pertini (1978-1985): 7 volte;
- Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999): 6 volte;
- Giorgio Napolitano (2006-2015): 1 volta.
Dal febbraio del 2015, quando è iniziato il suo primo mandato da presidente della Repubblica, Sergio Mattarella in almeno sette occasioni ha espresso «perplessità» sul contenuto di vari decreti-legge .
In questi 8 mesi e mezzo di Governo dell’On. Giorgia Meloni ben 25 sono i decreti giunti alle Camere, per una media di 4,1 al mese, superiore a quella di tutti gli altri governi che si sono succeduti almeno dal 2008.
Il ricorso al voto di fiducia – Sempre negli 8 mesi e mezzo di Governo dell’On. Giorgia Meloni, è la dodicesima volta che il Governo si muove in questo modo per tagliare la discussione su un decreto legge, dopo averlo modificato con maxi o mini emendamenti.
Le questioni di fiducia chieste dal Governo Meloni in totale sono anche di più, diciassette con il voto di fiducia chiesto sull’approvazione del contestatissimo decreto Pubblica Amministrazione, perché è stato approvato così sia alla Camera che al Senato anche un disegno di legge, la legge di bilancio, e in tre casi i decreti sono stati convertiti con doppio voto di fiducia (Aiuti quater, Superbonus e Bollette).
Con il Decreto Legge Pubblica Amministrazione sono state approvate – secondo il Sindacato delle toghe – anche le «due norme che sottraggono al controllo concomitante della Corte dei Conti i progetti del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) e prorogano l’esclusione della responsabilità amministrativa per condotte commissive gravemente colpose, tenute da soggetti sia pubblici che privati, riducendo di fatto la tutela della finanza pubblica.»
L’art. 100 della Costituzione prevede la Corte dei Conti fra gli “organi ausiliari” nel seguente modo: «La Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato.
Partecipa, nei casi e nelle forme stabilite dalla legge, al controllo sulla gestione finanziaria degli enti a cui lo Stato contribuisce in via ordinaria.
Riferisce direttamente alle Camere sul risultato del riscontro eseguito .
La legge assicura l’indipendenza dei due Istituti e dei loro componenti di fronte al Governo».
Il successivo art. 103 precisa: «La Corte dei conti ha giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica e nelle altre specificate dalla legge.»
Al riguardo l’On. Giorgia Meloni ha sottolineato che «quello che stiamo facendo sulla Corte dei Conti in rapporto ai controlli sul Pnrr non è nulla di difforme da quello che ha fatto il precedente governo».
Una tale affermazione è vera solo in parte dal momento che, come è stato ben spiegato in un comunicato della Corte dei Conti, il Decreto Legge conferma solo la proroga di un anno dello scudo erariale, cioè la limitazione delle responsabilità degli amministratori pubblici e dei privati ai soli casi di dolo (escludendo la colpa grave), che è già in vigore da tre anni, dal momento che è stato introdotto dal decreto Semplificazioni del 2020 con il governo Conte 2 per l’emergenza pandemia ed è stato prorogato dopo un anno e mezzo da Draghi presentandolo come stimolo alla ripresa economica: ne deriva che «in assenza del contesto di emergenza pandemica nel quale è nato impedisce di perseguire i responsabili e di recuperare le risorse distratte, facendo sì che il danno resti a carico della collettività».
Quello che l’On. Giorgia Meloni nasconde è che una proroga fuori dalle emergenze è considerata da molti una misura sproporzionata, dunque irragionevole e a rischio costituzionalità.
Allo stesso riguardo il presidente della Corte dei Conti, Guido Carlino, in audizione a Montecitorio, aveva spiegato: «Protrarre l’esclusione della responsabilità per colpa grave commissiva pone rilevanti dubbi di costituzionalità e di compatibilità con la normativa eurounitaria e genera un clima di deresponsabilizzazione, che non rafforza, ma depotenzia, l’efficacia dell’azione amministrativa».
Per i magistrati «prorogano l’esclusione della responsabilità amministrativa per condotte commissive gravemente colpose, tenute da soggetti sia pubblici che privati, riducendo di fatto la tutela della finanza pubblica», per cui in gioco non ci sono «le funzioni della magistratura contabile, ma la tutela dei cittadini».
Sul tema è intervenuta anche la Commissione europea: «Abbiamo un accordo con l’Italia sulla necessità di avere un sistema di controlli efficace», ha detto un portavoce di Bruxelles, aggiungendo che il contenuto dell’emendamento sarà monitorato «con grande attenzione».
Dall’altro lato invece l’affermazione dell’On. Giorgia Meloni omette di far sapere che c’è un comma introdotto ex n ovo che elimina il controllo concomitante della Corte dei Conti sul PNRR
pure era stato allargato ai progetti del PNRRr proprio per accelerarne la realizzazione.
Secondo i magistrati «l’abolizione di controlli in itinere, su attività specificamente volte al rilancio dell’economia, significa indebolire i presidi di legalità, regolarità e correttezza dell’azione amministrativa.
L’Associazione, con gli strumenti che ha a disposizione, continuerà a svolgere le sue funzioni a difesa dell’indipendenza e dell’autonomia della magistratura contabile».
A queste critiche l’On. Giorgia Meloni in tv ha risposto così: «La Corte dei Conti continua a fare tutti i controlli che deve fare, fa la sua relazione semestrale al parlamento, l’ultima era prodiga di critiche e non mi pare che gli sia stato messo un bavaglio.
Continua a fare la relazione e noi non abbiamo modificato niente».
Gliel’ha lasciata.
La relazione e non certo il controllo concomitante.
C’è ora da vedere se il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella rileverà dei vizi di legittimità costituzionale nei 2 emendamenti aggiunti in sede di conversione in legge del Decreto Pubblica Amministrazione.
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AGGIORNAMENTI
Vedi https://www.rodolfobosi.it/diritto-e-giurisprudenza/mattarella-tifa-per-la-corte-dei-conti/