Tra un mese e dieci giorni gli italiani saranno chiamati a votare un Sì o un No al blocco delle concessioni esistenti per la ricerca e lo sfruttamento di gas metano (ma in due casi anche di petrolio) dal fondo dei nostri mari.
Un Sì vittorioso (ovviamente nel caso che il quorum sia raggiunto) fermerebbe, alla scadenza dei contratti, ogni attività delle piattaforme.
Un No ne permetterebbe il rinnovo.
Al di la del quesito specifico, l’esito del referendum può essere, però, un importante segnale che la popolazione dà in merito alla strategia energetica del Paese.
Per arrivare preparati all’appuntamento bisogna essere consapevoli della reale posta in gioco, visto che il governo, anche se col mal di pancia di alcuni rappresentanti del Pd, è favorevole al No.
In proposito è utile estrapolare dal sito greenreport.it una comparazione sul tema fra le argomentazioni dell’esecutivo e quelle del responsabile per l’energia e il clima di Greenpeace Italia, Andrea Boraschi.
Dice il governo. Il Sì al referendum, qualora si raggiungesse il quorum, determinerebbe la cessazione delle attività di estrazione alla scadenza delle concessioni, di norma di durata trentennale, ciò anche se ci fosse ancora da estrarre un ingente quantitativo di gas metano.
Dice Greenpeace. “È Falso. Dopo 30 anni o più (gli impianti possono ottenere proroghe per altri 15) non ci sono più ingenti quantità da estrarre.
Oggi la gran parte delle piattaforme offshore italiane estrae nulla o poco più.
Si parla di impianti praticamente inutili ma ancora potenzialmente dannosi, e più invecchiano più sono a rischio”.
Dice il governo. In pratica con tutte le strutture già fatte, i tubi posati sul fondo del mare e senza nessuna nuova perforazione, saremmo costretti a chiudere i rubinetti delle piattaforme esistenti da un giorno all’altro rinunciando a circa il 60-70% della produzione di gas nazionale (gas metano, non petrolio).
Da un giorno all’altro non potremo sopperire a questo fabbisogno con le fonti rinnovabili.
Quindi il tutto si tradurrebbe in maggiori importazioni e nell’incremento del traffico navale (navi gasiere e petroliere), con un sostanzioso impatto sulla nostra bolletta energetica.
Dice Greenpeace. “È falso. Le piattaforme che verrebbero chiuse a scadenza non rappresentano affatto il 60-70% della produzione di gas in Italia.
Stiamo parlando di molto, molto meno.
Ma il dato fuorviante è un altro: infatti, pur ammesso che fosse vero, quel 60-70% di cui si parla equivale, in termini di consumo, al 4% circa del fabbisogno nazionale”.
Dice il governo. Il referendum non fermerà le trivelle nelle isole Tremiti, perché non ci sono e mai ci saranno trivelle nelle Tremiti.
Quello denunciato dai promotori del referendum era un permesso di prospezione e studio, ben oltre le 12 miglia e comunque non più in vigore, vista la rinuncia della compagnia interessata.
Dice Greenpeace. “Falsità, infatti più di una perizia ha mostrato come quella concessione fosse entro le 12 miglia.
E, del resto, le prospezioni non si fanno per hobby: se si trova qualcosa, con le rilevazioni sonore degli esiti prodotti dai fucili ad aria compressa sui fondali (tecnica degli air-gun), dopo arrivano le perforazioni”.
Dice il governo. Il referendum non fermerà la “petrolizzazione” dell’Italia come qualcuno vuole far credere, riguarda infatti le aree marine entro le 12 miglia dalla costa, dove, geologicamente, si sono accumulati solo giacimenti di gas metano, che, tra i combustibili fossili, è quello meno inquinante e recentemente riconosciuto dall’Unione Europea come quello che ci porterà avanti nella transizione verso le rinnovabili per i prossimi 30 anni.
Quindi non sarebbe uno stop al petrolio, che in Italia viene estratto quasi esclusivamente a terra, in Basilicata, ma uno stop al gas, ovvero a una fonte energetica pulita la cui introduzione ha portato alla riduzione dell’uso del carbone.
Dice Greenpeace. “E’ falso. Entro le 12 miglia c’è petrolio e gas.
Il progetto Ombrima Mare (a 6 miglia da Trabocchi, Abruzzo) bloccato dal governo per disinnescare l’iniziativa referendaria, era finalizzato a trovare petrolio.
Ugualmente dicasi per il campo oli Vega, nel Canale di Sicilia, dove entro le 12 miglia doveva sorgere la piattaforma Vega B.
Si può concordare sull’utilità del gas come fonte di transizione, è scritto in tutti gli scenari energetici di Greenpeace.
Ma c’è modo e modo di estrarlo e le piattaforme italiane non riescono a rispettare gli stessi limiti imposti dalla legge.
Vedi i dati del ministero dell’Ambiente”.
Dice il governo. Gli impianti di perforazione non uccidono il turismo.
La maggiore concentrazione di piattaforme in Italia si ha davanti alla riviera romagnola che è anche la zona con maggiori presenze turistiche; estrazione di gas e sviluppo della costiera romagnola sono andati avanti di pari passo dagli anni 60 ad oggi.
Viceversa regioni senza “trivelle” e che se ne preoccupano tanto hanno spiagge fatiscenti, depuratori non funzionanti e discariche abusive nel bel mezzo di parchi naturali.
Dice Greenpeace. “L’assunto è comico: le piattaforme dunque attraggono il turismo!
E c’è persino correlazione tra attività di estrazione e spiagge pulite, depuratori efficienti, buona gestione del ciclo dei rifiuti.
Consigliamo ai turisti delle aree menzionate di leggere questo rapporto (http://www.greenpeace.org/…/re…/2016/Trivelle_Fuorilegge.pdf), per avere un’idea degli impatti sul mare delle trivelle”.
Dice il governo. L’estrazione di gas dall’ Adriatico non provoca terremoti, c’è un rapporto ufficiale ISPRA (Istituto Superiore Protezione Ambiente) che lo certifica.
Chiunque afferma diversamente afferma il falso e non conosce la geologia dell’Adriatico.
Infatti in quel mare i sedimenti, sabbie ed argille, in seguito all’estrazione del gas, si deformano plasticamente, e la deformazione plastica è l’esatto opposto dei meccanismi di rottura dei terremoti”.
Dice Greenpeace. “Greenpeace non ha mai parlato di terremoti connessi all’attività estrattiva in Adriatico.
In ogni caso il referendum non riguarda solo l’Adriatico, ma tutti i mari italiani.
Dove, a seconda delle zone, vi sono situazioni diversissime.
C’è un fattore che riguarda invece specificamente l’Adriatico, che furbescamente si ignora, cioè la subsidenza.
Ovvero, l’abbassamento dei territori costieri.
Nella letteratura scientifica internazionale la correlazione tra le attività di estrazione di idrocarburi e la subsidenza è acclarata.
Tanto che la zona più settentrionale dell’Adriatico è stata sino ad oggi interdetta alle attività offshore proprio per questo motivo: per non accelerare l’inabissamento di Venezia, di gran parte dei territori costieri veneti, del delta del Po.
La legge Sblocca Italia del governo Renzi, dopo oltre un ventennio, riapre invece la possibilità di operare anche in quei mari, in via “sperimentale”.
E come sia fatta una trivella “sperimentale” ovviamente non lo sa nessuno”.
Dice il governo. Un esito positivo del referendum avrebbe impatto devastante sull’economia di alcune regioni, nella sola Emilia Romagna 6.000 persone perderebbero il lavoro in 2 anni.
Dice Greenpeace. “Che per estrarre il 4% del fabbisogno teorico e ancor meno del consumo annuo nazionale di gas possano essere impiegate 6.000 persone è incredibile.
L’Arabia Saudita ne impiega, nella sua compagnia di Stato, circa 50.000 per gestire un potenziale petrolifero che equivale a 7 volte il fabbisogno annuo dell’Italia e un potenziale gasiero che è una volta e mezza i nostri consumi annui.
Per proporzione, stando solo al gas, in Italia si dovrebbero impiegare circa 900.000 addetti”.
Dice il governo. Tutti vogliamo un mondo più pulito, le rinnovabili sono il futuro ma non ancora il presente, occorre affrontare un congruo periodo di transizione; allora perché affondare il sistema gas, senza avere ancora una valida alternativa?
Dice Greenpeace. “Voilà: siamo tutti ambientalisti.
Ma diciamo la verità.
Le rinnovabili sono il presente, eccome se lo sono.
Perché in Italia producono già oggi il 40% dell’elettricità, perché a partire dal 2011, su scala globale, si investe più su di esse che sulle fonti sporche.
E dovrebbe investirci più convintamente anche l’Italia, invece di scegliere opzioni e tecnologie vecchie e senza futuro.
Le riserve certe di petrolio sotto i nostri fondali equivalgono a meno di due mesi dei consumi nazionali; quelle di gas a circa sei mesi.
Ma queste risorse, per quanto misere, non verrebbero estratte in un sol colpo: si parla di concessioni che durerebbero almeno un trentennio.
Altresì, gas e petrolio non sarebbero italiani, ma risorsa privata delle compagnie che li estrarrebbero, pagando royalties tra le più basse al mondo e godendo di franchigie altrove inspiegabili.
Il gettito per le casse pubbliche sarebbe quindi esiguo mentre, a detta degli stessi esperti del settore petrolifero, si creerebbero pochissimi posti di lavoro.
La nostra dipendenza energetica dall’estero, infine, non si ridurrebbe se non di qualche decimale di punto”.
(Articolo pubblicato con questo titolo l’8 marzo 2016 sul sito “Il Monito del Giardino”)