Al momento in cui scrivo le guerre nel mondo in corso risultano essere ben 59 e l’invasione russa dell’Ucraina è solo l’ultimo di un lungo elenco di conflitti, a cui si è aggiunta di recente la guerra in Sudan che provocherà altri milioni di affamati e profughi.
Dall’Afghanistan, alla Libia, al Myanmar, alla Palestina, alla Nigeria, sono molte le popolazioni del mondo per cui il conflitto è la tragica normalità e provoca dappertutto il fenomeno della migrazione, che viene implementato anche dai cosiddetti “migranti ambientali” costretti a scappare dai loro paesi di origine a causa di disastri naturali conseguenti a siccità, alluvioni, terremoti ecc. ecc.
Secondo il nuovo rapporto “World Development Report 2023: Migrants, Refugees, and Societies” della Banca mondiale “circa il 2,5% della popolazione mondiale – 184 milioni di persone, inclusi 37 milioni di rifugiati – ora vive al di fuori del proprio Paese di nazionalità.
La quota maggiore, il 43%, vive nei Paesi in via di sviluppo”.
La spinta di questi dannati della terra non può più fermarsi perché sono in fuga da guerre, dittature, regimi corrotti, miseria endemica, sfruttamento di risorse, landgrabbing, carestie, disastri ambientali, crisi che in una parole direttamente o indirettamente siamo noi mondo occidentali a provocare: la globalizzazione non è altro che un rapace neocolonialismo globale e l’altra faccia (quella che ci si rifiuta di vedere) della nostra vita di privilegio e spreco.
Cerchiamo allora di vedere questa faccia che ci rifiutiamo di vedere, ripercorrendo questo fenomeno che è bene conoscere un po’ più a fondo attraverso le sue fasi storiche.
Dichiarazione universale dei diritti umani – È un documento sui diritti della persona, adottato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nella sua terza sessione, il 10 dicembre 1948 a Parigi con la risoluzione 219077A: la sua sigla in inglese è UDHR (Universal Declaration of Human Rights).
L’articolo 14 riconosce il diritto delle persone a chiedere l’asilo dalle persecuzioni in altri paesi.
La Convenzione di Ginevra sui rifugiati – È stata adottata il 28 luglio 1951 dalla Conferenza dei plenipotenziari sullo status dei rifugiati e degli apolidi convocata dalle Nazioni Unite: è entrata in vigore a livello internazionale il 22 aprile 1954.
L’Italia ha ratificato la convenzione con la legge numero 722 del 24 luglio 1954.
Firmata da 144 Stati contraenti, definisce il termine “RIFUGIATO” e specifica tanto i diritti dei migranti forzati quanto gli obblighi legali degli Stati a proteggerli.
Il principio fondamentale è quello che afferma che nessun rifugiato può essere respinto verso un Paese in cui la propria vita o libertà potrebbero essere seriamente minacciate: oggi è ormai considerato una norma di diritto internazionale consuetudinario.
L’UNHCR (sta per “United Nations High Commissioner for Refugees”, cioè Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, spesso chiamato anche Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati) svolge il ruolo di “guardiano” della Convenzione di Ginevra del 1951 e del Protocollo del 1967.
Per rifugiato deve quindi intendersi generalmente una persona che si trova al di fuori del proprio paese di origine e che non può o non vuole tornarvi per fondati motivi di discriminazione politica, religiosa, razziale, di nazionalità o a causa di persecuzioni.
Un rifugiato che ha formalmente presentato domanda di asilo ed è in attesa che gli venga concesso lo status di rifugiato dallo stato contraente o dall’ Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) può temporaneamente essere definito anche come “richiedente asilo”.
La principale agenzia internazionale che coordina la protezione dei rifugiati è l’Ufficio delle Nazioni Unite dell’UNHCR.
Le Nazioni Unite hanno un secondo ufficio per i rifugiati, l’ Agenzia delle Nazioni Unite pewr il soccorso e l’occupazione (UNRWA), che è, ad esempio, l’unico ufficio responsabile del sostegno alla grande maggioranza dei rifugiati palestinesi.
La convenzione si basa sull’articolo 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, per cui un rifugiato può godere di diritti e benefici in uno stato in aggiunta a quelli previsti dalla convenzione.
La Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, o UNCLOS (acronimo del nome in inglese United Nations Convention on the Law of the Sea) – È un Trattato internazionale che definisce i “Diritti e le responsabilità degli Stati nell’utilizzo dei mari e degli oceani”, definendo linee guida che regolano le trattative, l’ambiente e la gestione delle risorse naturali.
Il problema delle differenti rivendicazioni sulle acque territoriali fu sollevata alle Nazioni Unite nel 1967 da Arvid Pardo di Malta, per questo considerato il padre della Convenzione sul diritto del mare.
L’UNCLOS è stata definita durante un lungo processo di negoziazione attraverso una serie di Conferenze delle Nazioni Unite cominciate nel 1973 ed è stata finalmente aperta alla firma a Montego Bay, Giamaica, il 10 dicembre 1982.
È entrata in vigore il 16 novembre 1994, un anno dopo la firma della Guyana come sessantesimo Stato contraente.
In base all’art. 98 della Convenzione Unclos del 1982, titolato «Obbligo di prestare soccorso», ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri:
1.presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo;
2.proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di aiuto, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa.
In base alla stessa Convenzione, ogni Stato costiero promuove la costituzione e il funzionamento permanente di un servizio adeguato ed efficace di ricerca e soccorso per tutelare la sicurezza marittima e aerea e, quando le circostanze lo richiedono, collabora a questo fine con gli Stati adiacenti tramite accordi regionali.
La Convenzione ha quindi dettato le regole sulle attività e introduce una serie di indicazioni specifiche di fatto trasformando in regola quanto fino ad allora era stato l’uso consuetudinario degli spazi marini.
Gli argomenti più importanti sono: la zonazione delle aree marine, la navigazione, lo stato di arcipelago e i regimi di transito, zona economica esclusiva, giurisdizione della piattaforma continentale, attività estrattive minerarie nel fondo marino, regimi di sfruttamento, protezione dell’ambiente marino, ricerca scientifica e soluzione di dispute.
La Convenzione pone i limiti delle varie aree marine identificate, misurate in maniera chiara e definita a partire dalla cosiddetta linea di base. La linea di base, detta così in quanto base di partenza per la definizione delle acque interne e delle acque internazionali, si definisce una linea spezzata che unisce i punti notevoli della costa, mantenendosi generalmente in acque basse, ma laddove la costa sia particolarmente frastagliata o in casi in cui delle isole sono molto vicine alla costa, la linea di base può tagliare e comprendere ampi tratti di mare.
Le aree identificate dall’UNCLOS sono le seguenti:
ossia lo spazio di mare all’interno della linea di base. In quest’area vigono in maniera vincolante le leggi dello Stato costiero che regola l’uso delle risorse e il passaggio delle navi.
che comprende lo spazio di mare compreso dalla linea di base alle 12 miglia nautiche. In quest’area vigono comunque le leggi dello Stato costiero ma all’interno delle acque territoriali esiste il diritto di ogni imbarcazione al cosiddetto passaggio inoffensivo. Il passaggio inoffensivo è definito come l’attraversamento di aree marine in modo continuo e spedito che non pregiudichi la pace, il buon ordine e la sicurezza dello Stato costiero. La pesca, lo scarico di rifiuti, le attività armate e lo spionaggio non sono considerate azioni inoffensive; sottomarini e sommergibili devono inoltre navigare in emersione mostrando la bandiera.
Le acque interne degli Stati comprendenti arcipelaghi sono identificate tracciando una linea di base che unisce i punti più esterni delle isole più esterne, qualora questi punti siano ragionevolmente vicini fra loro.
La zona contigua si estende dal mare territoriale non oltre le 24 miglia nautiche dalla linea di base. In quest’area lo Stato costiero può sia punire le violazioni commesse all’interno del proprio territorio o mare territoriale sia prevenire le violazioni alle proprie leggi o regolamenti in materia doganale, fiscale, sanitario e di immigrazione. Ciò rende la zona contigua una hot pursuit area.
Anche nota con l’acronimo ZEE, è l’area di mare che si estende per 200 miglia nautiche dalla linea di base in cui lo Stato costiero può esercitare il diritto di sfruttamento esclusivo delle risorse naturali. Tale principio nasce per dare un freno allo sfruttamento indiscriminato della pesca anche se, con le nuove tecnologie che consentono di perforare alla ricerca di petrolio in acque molto profonde, è stata recentemente utilizzata anche per lo sfruttamento estrattivo minerario esclusivo.
La piattaforma continentale è considerata come il naturale prolungamento del territorio di uno Stato, il quale può quindi sfruttarne le risorse minerarie o comunque non-viventi in maniera esclusiva. La piattaforma continentale può superare le 200 miglia nautiche ma non eccedere le 350, o può essere calcolata misurando 100 miglia nautiche dall’isobata dei 2.500 metri.
La Convenzione internazionale sulla ricerca ed il salvataggio marittimo (nota anche semplicemente come: SAR, acronimo di search and rescue) – È stata siglata ad Amburgo il 27 aprile 1979 ed é entrata in vigore il 22 giugno 1985: è un accordo internazionale elaborato dall’Organizzazione Marittima Internazionale (IMO), volto a tutelare la sicurezza della navigazione mercantile, con esplicito riferimento al soccorso marittimo.
È stata modificata due volte: la prima volta nel 1998 con la risoluzione MSC.70 (69) e la seconda volta nel 2004 con la risoluzione MSC.155 (78); successivamente l’IMO, in collaborazione con l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile (ICAO), ha predisposto il Manuale internazionale di ricerca e soccorso marittimo, noto come Manuale IAMSAR (International Aeronautical and Maritime Search and Rescue Manual).
In Italia ad essere investito per legge delle funzioni SAR in mare è il Corpo delle capitanerie di porto, il quale, pur essendo uno dei corpi specialistici della Marina Militare italiana, svolge compiti relativi agli usi civili del mare con funzioni amministrativo-burocratiche, di polizia giudiziaria e di guardia costiera.
L’organizzazione a livello territoriale è stata definita con il decreto interministeriale dell’8 giugno 1989.
Nell’ambito della funzione di ricerca a soccorso, il suo braccio operativo, ovvero la guardia costiera svolge la funzione di coordinamento generale dei servizi di soccorso marittimo (di cui all’articolo 3, comma 1, lettera “a”, del decreto del presidente della Repubblica 28 settembre 1994, n. 662), ed è l’organo competente per l’esercizio delle funzioni di ricerca e salvataggio in mare (ai sensi degli articoli 69, 70 e 830 del codice della navigazione), di disciplina, monitoraggio e controllo del traffico navale, di sicurezza della navigazione e del trasporto marittimo, nonché delle relative attività di vigilanza e controllo, ai sensi del codice della navigazione, della legge 28 dicembre 1989, n. 422 e delle altre leggi speciali.
La prima legge italiana sull’immigrazione – La prima legge della Repubblica italiana in materia è stata la legge n. 943/1986, che però affrontava il tema dell’immigrazione solo in relazione alla tematica del lavoro, in maniera emergenziale e non organica.
Per avere la prima vera legge organica in materia immigrazione, anch’essa dettata da motivazioni emergenziali, si è dovuto attendere fino al 1990 quando la legge Martelli n. 39 del 28 febbraio 1990 ha introdotto per la prima volta in Italia interventi di tipo sociale nei confronti degli immigrati e basa il sistema di entrata dei migranti sulla programmazione dei flussi d’ingresso mediante un sistema di previsione di quote massime.
La Convenzione di Schengen – È un trattato dell’Unione Europea firmato il 19 giugno 1990, che riguarda il territorio di 27 Stati dell’Unione Europea in cui sono state abolite le frontiere interne.
Queste sono state sostituite da un’unica frontiera esterna (dove avviene il controllo dei passeggeri): perciò, dal punto di vista dei viaggi internazionali, il territorio degli Stati partecipanti rappresenta un complesso unitario.
Lo spazio Schengen è quindi un territorio in cui è garantita la libera circolazione delle persone della Comunità Economica Europea.
Il trattato di Dublino – È stato firmato nel 1990 appunto a Dublino (Irlanda) per disciplinare la materia relativa al sistema dell’accoglienza e dellerichieste d’asilo all’interno dell’Unione europea: oltre ai Paesi comunitari, nel documento rientrano anche Norvegia, Svizzera e Islanda.
Il trattato è entrato in vigore sette anni dopo, nel mese di settembre del 1997.
Il documento ha subito 2 successive modifiche: nel 2003 con il regolamento “Dublino II” e nel 2013 con il regolamento “Dublino III”.
La modifica del 2003 non è stata di tipo sostanziale ma più che altro formale dal momento che alcuni Paesi, Danimarca in primis, avevano rinunciato ad adottare alcune regole previste nel documento.
Nel 2013 altre modifiche hanno incluso tutti gli Stati membri ad eccezione della Danimarca.
Il principio cardine però è rimasto lo stesso, ovvero che lo Stato di primo approdo del migrante è quello che si occuperà dell’accoglienza e della relativa richiesta d’asilo.
Ma mentre nel 1990 lo stesso principio si basava sul buon senso in quanto la percentuale delle migrazioni era contenuta, nel 2013, la situazione ha assunto prospettive diverse a causa dell’afflusso divenuto a quel momento imponente di migranti.
Sono state quindi sollevate numerose polemiche sulla possibilità di rivedere il trattato con modifiche innovative basate sul mutato contesto socio politico.
Uno dei principi cardine che lo costituisce è quello secondo cui è lo Stato diprimo approdo del migrante che deve far fronte al “sistema” accoglienza, domanda d’asilo inclusa, impedendo quindi che i richiedenti tale diritto facciano richiesta in più Stati membri.
Altro punto fondamentale del trattato è quello di evitare il più possibile che vi siano richiedenti asilo detti “in orbita” e cioè che siano trasportati da uno Stato membro ad un altro.
Da questi principi si evince come il trattato penalizzi i Paesi meridionali dell’Europa, Italia compresa, che registrano ogni anno l’arrivo di diverse migliaia di migranti su tutto il territorio nazionale.
Stando a quanto detto dal presidente dell’esecutivo europeo, adesso le modifiche del trattato dovrebbero puntare su una maggiore solidarietà europea verso gli Stati più esposti ai flussi migratori.
Il Trattato di Maastricht, o Trattato sull’Unione europea (TUE) – È uno dei trattati dell’Unione Europea, firmato il 7 febbraio 1992 a Maastricht nei Paesi Bassi, sulle rive della Mosa, dai dodici paesi membri dell’allora Comunità europea, oggi Unione europea, ed entrato in vigore il 1º novembre 1993.
La legge sulla cittadinanza – Si tratta delle legge n. 91 del 5 febbraio 1992 ai sensi della quale acquistano di diritto alla nascita la cittadinanza italiana coloro i cui genitori (anche soltanto il padre o la madre) siano cittadini italiani (articolo 1, co. 1, lett. a)): si tratta della così detta modalità di acquisizione della cittadinanza jure sanguinis.
L’ordinamento italiano riconosce anche il criterio alternativo dello jus soli, pur prevedendolo soltanto in via residuale e per casi limitati a:
- coloro che nascono nel territorio italiano e i cui genitori siano da considerarsi o ignoti (dal punto di vista giuridico) o apolidi (cioè privi di qualsiasi cittadinanza) (art. 1, co. 1, lett. b));
- coloro che nascono nel territorio italiano e che non possono acquistare la cittadinanza dei genitori in quanto la legge dello Stato di origine dei genitori esclude che il figlio nato all’estero possa acquisire la loro cittadinanza (art. 1, co. 1, lett. b));
- i figli di ignoti che vengono trovati (a seguito di abbandono) nel territorio italiano e per i quali non può essere dimostrato, da parte di qualunque soggetto interessato, il possesso di un’altra cittadinanza (art. 1, co. 2).
Le rotte di migranti nel Mediterraneo – Collegano dall’inizio degli anni novanta, l’Africa e il Medio Oriente all’Europa.
Il fenomeno dell’immigrazione per mare è aumentato di pari passo con la chiusura delle frontiere degli Stati europei a seguito dell’adozione di un regime di visti di ingresso particolarmente restrittivo verso i Paesi poveri.
Il mare viene attraversato su imbarcazioni di fortuna, spesso vecchi pescherecci, barche in vetroresina o gommoni.
I principali punti d’ingresso sono le coste spagnole, italiane e greche.
Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, i flussi sono misti, composti cioè di migranti economici e rifugiati politici ( UNHCR, 10 luglio 2006, Piano d’azione per la tutela dei diritti nell’ambito dei flussi migratori.)
Esistono molteplici rotte nel Mediterraneo, ma le principali sono tre: quella occidentale verso la Spagna, quella centrale verso l’Italia, e quella orientale verso la Grecia, che è stata la più percorsa negli ultimi anni, con circa 1,2 milioni di arrivi dal 2009, più delle altre due rotte combinate.
Ben il 73% di questi sono sbarcati però solo nel 2015 a causa dei conflitti in Siria, Iraq e Afghanistan.
Le migrazioni lungo la tratta orientale sono poi diminuite anche grazie a un accordo tra la Turchia e l’Unione europea (raggiunto il 18 marzo 2016): il Paese guidato da Erdoğan ha accettato di ospitare i migranti diretti in Europa in cambio di assistenza economica, incentivi e appoggio politico.
La rotta centrale, dal Nord Africa all’Italia, ha registrato più di 780.000 arrivi, conoscendo una diminuzione nel 2018.
Il Mar Mediterraneo si è dimostrato estremamente pericoloso per i migranti che hanno tentato di attraversarlo, soprattutto per la via centrale.
Si stima che circa 17.000 persone siano morte in mare dal 2014, circa il 2% di tutti i migranti che attraversano il Mediterraneo su base annua.
La rotta più antica collega la costa del Marocco alla Spagna, attraverso lo stretto di Gibilterra e si è andata dilatando negli anni, al punto che oggi molte imbarcazioni partono direttamente dalla costa oranese dell’Algeria, verso l’Andalusia o verso le isole Baleari.
La Spagna è interessata da una seconda rotta, quella che parte dalla costa atlantica africana (Marocco, Sahara Occidentale, Mauritania, Senegal, Gambia e Guinea) fino all’arcipelago delle isole Canarie.
Nel Mediterraneo centrale le rotte sono quattro: la più battuta parte dalle coste occidentali libiche, tra Tripoli, Gasr Garabulli e Zuara, puntando verso Lampedusa, la Sicilia e Malta.
Parallele a questa, altre due rotte collegano il litorale tunisino, tra Susa, Monastir e Sfax a Lampedusa, e la costa nord tra Biserta e Capo Bon a Pantelleria.
Dall’Egitto partono invece alcuni dei pescherecci che giungono in Sicilia orientale e in Calabria.
Infine, a partire dal 2006, una nuova rotta collega Algeria e Sardegna, partendo dalla costa nei pressi della città di Annaba.
In passato era invece Malta a costituire un importante punto di passaggio: migliaia di migranti si stanziavano ogni anno sull’isola con un visto turistico e da lì venivano imbarcati clandestinamente verso le coste siciliane.
Nel Mediterraneo orientale, infine, le rotte marittime collegano la costa della Turchia alle vicine isole greche del Mar Egeo, in particolare Samo, Mitilene, Chio e Farmaco.
Sull’isola greca di Creta, invece, in misura minore, arrivano imbarcazioni salpate dalla costa egiziana.
Alla fine degli anni novanta e inizio duemila, migliaia di profughi Curdi salpavano direttamente dalle coste turche verso la Calabria, una rotta che ancora nel 2007 ha portato un migliaio di persone sulle coste della Locride.
La rotta fra Albania e la Puglia si è invece esaurita con la progressiva stabilizzazione politica ed economica del Paese balcanico.
La cosiddetta legge Turco-Napolitano – Si tratta della legge n. 40 del 6 marzo 1998, la prima in Italia riguardante l’immigrazione e non approvata in situazione di emergenza: sebbene lontana dalla perfezione, si è mostrata comunque come la più coerente ed organica legge d’immigrazione approvata fino ad allora.
Fra i punti positivi che è possibile ascrivergli c’è stata la previsione di delega per l’approvazione del decreto legislativo che ha creato il cosiddetto Testo Unico sull’immigrazione.
Testo Unico sull’immigrazione – Si tratta del Decreto Legislativo n. 286 del 25 luglio 1998 (“Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero”): ha riordinato la materia in tutte le sue componenti e, nonostante le numerose modifiche intervenute a modificarlo negli anni, è ancora in vigore e rappresenta l’oggetto di analisi di questo dossier.
Coadiuvato ed integrato dalla normativa europea e regionale di settore, il Testo Unico rappresenta, la pietra angolare del sistema di immigrazione italiano: ha introdotto importanti, e talvolta controverse, novità nel contesto della legislazione nazionale in tema di immigrazione, come ad esempio l’introduzione del sistema delle quote d’ingresso come momento d’incontro fra domanda ed offerta di manodopera straniera, mitigato dal c.d. sistema dello sponsor, già introdotto dalla Turco – Napolitano, il quale permette al lavoratore straniero di entrare nel mercato del lavoro italiano tramite una chiamata diretta del datore di lavoro.
Il T.U. inoltre ha previsto la possibilità del ricongiungimento familiare per gli stranieri regolarmente residenti prima che essa venisse legiferata a livello europeo ed in generale ha esteso agli stranieri una serie di diritti che prima non erano contemplati dal sistema normativo italiano.
Il T. U. è un articolato complesso di norme che si compone di 49 articoli, suddivisi in 6 Titoli.
La protezione umanitaria – È stata introdotta in Italia nel 1998 ed è regolata dal 5° comma dell’articolo 5 del Decreto Legislativo n. 286/1998.
È stata abolita dal governo Conte I nel 2018, con un ruolo determinante dell’allora ministro degli Interni Matteo Salvini, che aveva incluso la misura nei suoi cosiddetti “decreti sicurezza”.
Sottoposta a rilievi critici dal Quirinale, era stata reintrodotta nella versione finora vigente dal governo Conte II, con Luciana Lamorgese agli Interni.
Si tratta della forma più debole, ma anche più flessibile e inclusiva, di protezione internazionale.
Copre persone che non possono dimostrare di essere state perseguitate individualmente per le loro opinioni od origini, e neppure di essere fuggite da paesi devastati da guerre aperte, come la Siria, o da contesti notoriamente oppressivi, come l’Afghanistan dei talebani.
Mediante la protezione speciale possono essere accolte legalmente donne incinte, persone ammalate, chi ha legami familiari o affettivi stabili in Italia, e anche, a discrezione delle commissioni prefettizie ed eventualmente dei giudici, persone che hanno intrapreso un serio cammino d’integrazione, avendo imparato l’italiano, seguito un corso di formazione professionale, e soprattutto trovato un lavoro.
In generale, l’Italia non solo riceve meno domande di asilo dei principali partner europei ma non è nemmeno particolarmente generosa nella concessione della protezione internazionale.
Nel 2017 in Italia sono state presentate 130mila domande di protezione internazionale: il 52% delle richieste è stato respinto, nel 25% dei casi è stata concessa la protezione umanitaria, all’8% delle persone è stato riconosciuto lo status di rifugiato, un altro 8% ha ottenuto la protezione sussidiaria, il restante 7% ha ottenuto altri tipi di protezione.
Nel 2022 le domande esaminate sono state 52.625: la maggioranza (il 53 per cento) ha ricevuto un diniego (27.385), il 12 per cento il riconoscimento dello status di rifugiato pleno iure (6.161), il 13 per cento la protezione sussidiaria (6.770), il 21 per cento la protezione speciale (10.865).
In un quadro complessivamente severo, la protezione speciale è stata effettivamente la formula più utilizzata.
Come sottolinea il ricercatore Matteo Villa dell’Istituto per gli studi di politica internazionale, dal gennaio del 2018 le richieste di asilo in Italia stanno diminuendo.
I Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) – Le strutture di trattenimento per stranieri irregolari sono state disciplinate dal testo unico immigrazione (D.Lgs. 286/1998): si tratta dei Centri di permanenza temporanea e assistenza (CPTA), poi definiti Centri di permanenza temporanea (CPT) e successivamente Centri di identificazione ed espulsione (CIE).
Con il decreto-legge n. 13 del 2017 i Centri di identificazione ed espulsione (CIE) hanno assunto la denominazione di Centri di permanenza per i rimpatri (CPR) (art. 19, comma 1).
Il medesimo D.L. 13/2017 (art. 19, comma 3) ha disposto, al fine di assicurare una più efficace esecuzione dei provvedimenti di espulsione dello straniero, l’ampliamento della rete dei CPR, con la finalità di assicurare la distribuzione delle strutture sull’intero territorio nazionale.
I CPR sono luoghi di trattenimento del cittadino straniero in attesa di esecuzione di provvedimenti di espulsione (art. 14, D.Lgs. 286/1998).
Quando non è possibile eseguire con immediatezza l’espulsione mediante accompagnamento alla frontiera o il respingimento, a causa di situazioni transitorie che ostacolano la preparazione del rimpatrio o l’effettuazione dell’allontanamento, il questore dispone che lo straniero sia trattenuto per il tempo strettamente necessario presso il centro di permanenza per i rimpatri più vicino, tra quelli individuati o costituiti con decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze.
In tali strutture lo straniero deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità. Il trattenimento è disposto con provvedimento del questore per un periodo di 30 giorni, prorogabile fino ad un massimo di 90 giorni.
In casi particolari il periodo di trattenimento può essere prolungato di altri 30 giorni.
Da segnalare il regolamento recante criteri per l’organizzazione e la gestione dei Centri di identificazione ed espulsione approvato con decreto del Ministro dell’interno del 20 ottobre 2014 n. 12700.
La cosiddetta legge Bossi-Fini – Si tratta della legge n. 189 del 30 luglio 2002, approvata sotto il Governo Berlusconi II (11 giugno 2001-23 aprile 2005): ha modificato il Testo Unico (decreto legislativo n. 286/1998), al fine di regolamentare le politiche sull’immigrazione e sostituire la norma precedente, la legge Turco-Napolitano, confluita poi nella legge del 2002.
Oltre ad avviare le procedure restrittive, ha segnato anche l’inizio delle procedure per la regolarizzazione di colf, badanti e lavoratori non in regola.
In sintesi, le principali novità della legge sono state le seguenti:
- Espulsioni con accompagnamento alla frontiera;
- Permesso di soggiorno legato ad un lavoro effettivo;
- Inasprimento delle pene per i trafficanti di esseri umani;
- Sanatoria per colf, assistenti ad anziani, malati e diversamente abili, lavoratori con contratto di lavoro di almeno 1 anno;
- Uso delle navi della Marina Militare per contrastare il traffico di clandestini.
Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar) – Il richiedente asilo può accedere ad esso nel caso in cui manchi dei mezzi di sussistenza.
Con la legge 189/2002 il Ministero dell’Interno ha istituito la struttura di coordinamento del sistema – il Servizio centrale – e ne ha affidato la gestione ad Anci.
Lo Sprar è composto da una rete di enti locali che, attraverso il Fondo nazionale per le politiche e i servizi di asilo (Fnpsa), realizzano progetti di accoglienza integrata.
Il sistema non si limita a un’accoglienza meramente assistenziale ma è volto ad integrare le persone nel territorio attraverso l’accoglienza in piccoli centri sviluppando progetti personalizzati.
Accordi Italia-Libia – Per il contrasto dell’immigrazione africana nel Canale di Sicilia, il governo italiano ha siglato diversi accordi con la Libia.
Il primo nel 2003, firmato dal governo Berlusconi II, prevedeva l’invio in Libia di mezzi per il pattugliamento e fondi per la costruzione di due campi di detenzione a Kufrah e Gharyan.
Un secondo accordo è stato firmato il 29 dicembre 2007 dal governo Prodi prevedendo l’avvio di pattugliamenti italo-libici da effettuarsi in acque libiche con l’obiettivo di respingere verso i porti di partenza i migranti intercettati in mare.
Contro il respingimento in Libia di potenziali rifugiati politici si è espressa anche Amnesty International: la Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sui rifugiati.
Diversi rapporti internazionali inoltre hanno denunciato abusi e torture commessi dalla polizia libica ai danni dei migranti nei campi di detenzione sparsi nel paese.
Una mappa dei campi è stata realizzata da Fortress Europe.
Un ultimo accordo conGheddafi fu firmato nel 2008 direttamente da Silvio Berlusconi: sulla scorta di tale intesa – che prevedeva campi di raccolta in suolo libico, per impedire le partenze di migranti, e che consentiva respingimenti in mare verso la Libia delle barche intercettate dalla Marina italiana – furono respinti i ricorrenti del caso Hirsi e altri contro Italia, sul quale nel 2012 l’Italia fu condannata dalla Corte europea dei diritti umani.
L’Italia non diede attuazione alla sentenza, ma l’intesa comunque era divenuta inapplicabile per la perdita di autorità statuale in Libia con la guerra civile.
L’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, nota anche come Frontex (denominazione informale nata dalla contrazione di “Frontières extérieures”) – È un’agenzia fondata nel 2004 a cui è affidato il funzionamento del sistema di controllo e gestione delle frontiere esterne dello Spazio Schengen e dell’Unione Europea, che intende ricomprendere le autorità nazionali competenti per il controllo delle frontiere (guardia costiera e guardia di frontiera) che fanno capo agli stai membri dell’Unione europea aderenti allo Spazio Schengen.
In quanto Agenzia dell’UE, Frontex è finanziata dal bilancio dell’Unione e dai contributi dei paesi associati Schengen.
Nel 2016 l’Agenzia è stata ampliata e potenziata per diventare l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, il suo ruolo è stato esteso dal controllo della migrazione alla gestione delle frontiere e le sono state affidate maggiori responsabilità nella lotta alla criminalità transfrontaliera.
Frontex è ormai riconosciuta come una delle pietre angolari dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia dell’UE: anche i servizi di ricerca e di salvataggio sono diventati ufficialmente parte integrante del suo mandato ogniqualvolta si verifichino circostanze di questo tipo nel contesto della sorveglianza delle frontiere marittime.
Frontex è un’Agenzia operativa, con oltre 1.500 funzionari degli Stati membri dispiegati contemporaneamente in tutta l’UE.
Per migliorare la propria capacità di monitorare realtà nuove e in rapida evoluzione alle frontiere esterne, è stato lanciato Frontex Situation Center – il Centro di situazione Frontex – responsabile del monitoraggio delle frontiere esterne, che opera 24 ore su 24, sette giorni su sette.
Il Pacchetto Sicurezza – Sotto il Governo Berlusconi IV (8 maggio 2008-16 novembre 2011) è stata approvata la legge n. 94 del 15 luglio 2009 (detta anche “Decreto Sicurezza”) con cui è stato introdotto il reato di immigrazione clandestina, che prevede un’ammenda da 5.000 a 10.000 euro per lo straniero che entra illegalmente nel territorio dello Stato.
L’operazione Mare nostrum – Il 3 ottobre 2013 a poche miglia del porto di Lampedusa c’è stato il naufragio di un’imbarcazione libica usata per il trasporto di migranti, noto come “tragedia di Lampedusa”.
L’affondamento ha provocato: 368 morti accertati e circa 20 dispersi presunti; i superstiti salvati sono stati 155, di cui 41 minori.
In seguito al naufragio di Lampedusa il governo italiano, guidato dal presidente del consiglio Enrico Letta, ha deciso di rafforzare il dispositivo nazionale per il pattugliamento del Canale di Sicilia autorizzando l’operazione Mare nostrum, una missione militare e umanitaria la cui finalità era di prestare soccorso ai migranti, prima che potessero ripetersi altri tragici eventi nel Mediterraneo: è stata quindi una vasta missione di salvataggio in mare dei migranti che cercavano di attraversare il Canale di Sicilia dalle coste libiche al territorio italiano e maltese, attuata dal 18 ottobre 2013 al 31 ottobre 2014 dalle forze della Marina Militare e dell’Aeronautica Miliate italiane.
A partire dal 1º novembre 2014, l’operazione Mare nostrum è stata sostituita dall’operazione “Triton di Frontex”: il programma, a guida UE, punta al controllo delle frontiere.
I migranti provenivano da due zone: la Libia (alcune ore di attraversata) o dall’Egitto (8 giorni di attraversata), usavano gommoni, barconi e pescherecci.
L’unico Stato che con l’Italia ha contribuito all’operazione fu la Slovenia.
L’operazione Triton (originariamente chiamata Frontex Plus) – È stata un’operazione di sicurezza delle frontiere dell’Unione europea condotta da Frontex, l’agenzia europea di controllo delle frontiere, con l’obiettivo di tenere controllate le frontiere nel mar mediterraneo.
L’operazione Triton è iniziata dopo la fine dell’operazione italiana “Mare Nostrum”, giudicata troppo costosa per un singolo Stato dell’UE (9.000.000 € al mese per 12 mesi). Il governo italiano aveva chiesto fondi supplementari da altri Stati membri dell’UE, ma non fu offerto il supporto richiesto.
L’operazione è iniziata il 1º novembre 2014: prevedeva contributi volontari da parte di 15 su 28 Stati membri dell’UE.
Gli Stati che hanno contribuito volontariamente all’operazione Triton sono stati: Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia, Germania, Paesi Bassi, Francia, Spagna, Portogallo, Italia, Austria, Svizzera, Romani, POlonia, Lituania e Malta.
La crisi europea dei migranti – È una crisi migratria che ha avuto inizio intorno al 2013, quando un numero sempre crescente di rifugiati e di migranti ha cominciato a spostarsi da altri continenti extra-europei verso l’Unione europea per richiedere asilo, viaggiando attraverso il Mar Mediterraneo, oppure attraverso la Turchia e l’Europa sudorientale.
Le espressioni “crisi europea dei migranti” e “crisi europea dei rifugiati” hanno cominciato ad essere diffusamente utilizzate dal mese di aprile del 2015 da parte del mondo giornalistico e nell’opinione pubblica, quando nel Mediterraneo centro-meridionale affondarono cinque imbarcazioni che trasportavano quasi 2 000 migranti, con un numero di morti stimato a più di 1 200 persone.
La maggior parte di questi migranti proveniva da aree del mondo quali Medio Oriente, Asia meridionale, Africa e Balcani occidentali: secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, dei circa un milione di arrivati in Grecia e Italia dal Mar Mediterraneo nell’anno 2015 il 49% erano siriani, il 21% afghani e l’8% iracheni.
Il 58% erano uomini, il 17% donne e il 25% bambini.
I muri anti-migranti dei Paesi dell’Europa dell’Est – Quando nel 2015 si è scatenata la crisi migratoria in Europa, sono state erette barriere anche all’interno dell’area Schengen e sono stati creati 1.000 chilometri di muri.
12 Stati membri dell’Unione europea hanno inviato una lettera alla Commissione europea e alla presidenza di turno del Consiglio Ue per chiedere di finanziare la costruzione di ulteriori muri alle frontiere con i fondi europei.
L’Europa e il mondo hanno ora centinaia di chilometri di muri o barriere elettrificate eretti ai confini: da sei che erano nel 1989, nel 2020 le barriere fisiche sono diventate 63.
L’Accordo sui Migranti tra Turchia ed Unione Europea – Pur di non accogliere i migranti entro i suoi confini, il 18 marzo 2016 l’unione Europea ha preferito sottoscrivere un accordo con la Turchia che si è impegnata ad accogliere soprattutto i migranti siriani in cambio di un finanziamento. La Turchia è arrivata così ad ospitare 3.447.837 rifugiati siriani a marzo 2023.
Il decreto legge Minniti–Orlando – Si tratta del decreto legge n. 13 del 2017 (convertito nella legge n. 46 del 13 aprile 2017) che ha riguardato le “Disposizioni urgenti in materia di immigrazione”
Il governo di Paolo Gentiloni ha blindato il decreto ponendo la mozione di fiducia, che è stata approvata con larga maggioranza.
Il decreto porta il nome del ministro dell’interno Marco Minniti e del ministro della giustizia Andrea Orlando e contiene “Disposizioni urgenti per l’accelerazione dei procedimenti in materia di protezione internazionale, nonché misure per il contrasto dell’immigrazione illegale”.
Secondo le dichiarazioni degli stessi ministri, il decreto è nato dall’esigenza del governo di accelerare le procedure per l’esame dei ricorsi sulle domande d’asilo, che nell’ultimo anno sono aumentati e hanno intasato i tribunali: dall’altra parte però il governo ha voluto aumentare il tasso delle espulsioni di migranti irregolari.
I punti principali del decreto sono quattro: l’abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo che hanno fatto ricorso contro un diniego, l’abolizione dell’udienza, l’estensione della rete dei centri di detenzione per i migranti irregolari e l’introduzione del lavoro volontario per i migranti.
Nel primo grado di giudizio l’attuale “rito sommario di cognizione” è stato sostituito con un rito camerale senza udienza, nel quale il giudice prenderà visione della videoregistrazione del colloquio del richiedente asilo davanti alla commissione territoriale.
Senza contraddittorio e senza che il giudice possa rivolgere domande al richiedente asilo che ha presentato il ricorso.
Il piano ha previsto inoltre un allargamento della rete dei centri per il rimpatrio, per cui gli attuali Cie si chiameranno Cpr (Centri permanenti per il rimpatrio).
Si è passati da quattro a venti centri, uno in ogni regione, per un totale di 1.600 posti.
Di fronte alle preoccupazioni espresse da numerose organizzazioni impegnate per la difesa dei diritti umani, il ministro dell’interno Minniti ha assicurato che i nuovi centri sarebbero stati piccoli, con una capienza di cento persone al massimo, sarebbero sorti lontano dalle città e vicino agli aeroporti e soprattutto sarebbero stati “tutt’altra cosa rispetto ai Cie”.
Molti giuristi hanno sostenuto che il decreto Minniti-Orando non è in linea con la costituzione italiana e con la Convenzione europea sui diritti dell’uomo. In particolare violerebbe l’articolo 111 della costituzione (il diritto a un giusto processo), l’articolo 24 (il diritto di difesa), e l’articolo 6 della Convenzione europea sui diritti umani (diritto al contraddittorio).
I punti più contestati sono l’abolizione del secondo grado di giudizio per i richiedenti asilo e la cancellazione dell’udienza. L’Associazione studi giuridici sull’immigrazione ha criticato, inoltre, il ricorso stesso allo strumento del decreto legge: “Una misura che si applica solo in condizioni di urgenza” e che però in questo caso verrà applicata “sui processi in vigore tra 180 giorni”.
L’operazione Themis – L’iniziativa, condotta da Frontez, ha sostituito l’operazione Triton nel presidio dei flussi di migranti: è iniziata il 1º febbraio 2018 con l’obiettivo di combattere le migrazioni senza controllo e i crimini transfrontalieri, nella speranza di armonizzare la gestione sui flussi migratori via mare.
Rispetto all’operazione Triton, Themis ha due nuove rotte migratorie, quella ad est tra Turchia, Grecia e Albania e quella ad ovest tra Tunisia ed Algeria.
Gli obiettivi della nuova operazione sono stati l’aumentare il pattugliamento marino, sviluppare polizia e intelligence ma soprattutto garantire il soccorso dei migranti in mare in maniera più diffusa.
Rispetto alle 30 miglia di Triton, Themis ha avuto una linea di pattugliamento di 24 miglia dalle coste italiane, ma con la previsione di un meccanismo di rivalutazione del suddetto limite, se i flussi migratori avessero subito un cambiamento: in questo caso, potrebbero essere modificate sia l’area operativa sia le regole d’intervento.
Themis ha incluso la raccolta d’intelligence e varie altre misure volte ad individuare i combattenti stranieri e le minacce terroristiche alle frontiere esterne.
I punti di crisi (cosiddetti “hotspot”) – A partire dalla fine del 2015, il sistema di accoglienza nazionale si è ulteriormente arricchito della previsione dei cosiddetti “hotspot”, istituiti in seguito agli impegni assunti dallo Stato italiano nell’ambito dell’Agenda europea sulla migrazione, presentata il 13 maggio 2015 dalla Commissione europea, che ha sancito un approccio globale per migliorare la gestione della migrazione in tutti i suoi aspetti, prefigurando, in primo luogo, l’istituzione di un nuovo metodo basato sui punti di crisi (“hotspot”).
Tale approccio consiste nell’apertura di hotspot collocati nei luoghi dello sbarco dove effettuare la registrazione e l’identificazione tramite rilievi dattilografici delle persone sbarcate.
Il Governo italiano, il 28 settembre 2015 ha presentato una roadmap, recante l’impegno a mettere in atto il nuovo approccio «hotspot», individuando sei porti come sede dei punti di crisi.
Per dare una copertura giuridica di tale misure nell’ordinamento interno, l’art. 17 del decreto-legge n. 13/2017 ha introdotto nel T.U. immigrazione una nuova disposizione in base alla quale lo straniero rintracciato in occasione dell’attraversamento irregolare della frontiera interna o esterna ovvero giunto nel territorio nazionale a seguito di operazioni di salvataggio in mare è condotto in appositi “punti di crisi” per le esigenze di soccorso e di prima accoglienza (art. 10-ter, D.Lgs. n. 286/1998).
Si prevede, inoltre, che i punti di crisi possono essere allestiti:
– nell’ambito delle strutture istituite ai sensi del decreto-legge n. 451 del 1995, ossia i CDA (centri di accoglienza), istituiti per rispondere alle emergenze degli sbarchi dei profughi provenienti dall’ex Jugoslavia, oppure:
– all’interno delle strutture di prima accoglienza, come disciplinate dal D.Lgs. n. 142 del 2015, che adempiono anche alle esigenze di espletamento delle operazioni necessarie alla definizione della posizione giuridica dello straniero.
Presso i punti di crisi il cittadino straniero, oltre alle procedure di accertamento delle condizioni di salute e di prima assistenza, è sottoposto alle procedure di identificazione, mediante operazioni di rilevamento fotodattiloscopico e segnaletico, anche ai fini del rispetto degli articoli 9 e 14 del regolamento Eurodac.
Al contempo, lo straniero riceve informazioni sulla procedura di protezione internazionale, sul programma di ricollocazione in altri Stati membri dell’Unione europea e sulla possibilità di ricorso al rimpatrio volontario assistito.
Il D.L. n. 113 del 2018 (articolo 3) ha introdotto la possibilità di disporre il trattenimento dei richiedenti asilo in appositi locali degli hotspot per il tempo strettamente necessario, e comunque per un periodo massimo di 30 giorni, per la determinazione o la verifica dell’identità o della cittadinanza.
Al contempo il medesimo decreto ha disposto l’inserimento (entro l’articolo 7, comma 5, lettera e) del decreto-legge n. 146 del 2013) delle strutture degli appositi punti di crisi – individuati dall’articolo 10-ter, comma 1, del Testo unico sull’immigrazione quali centri di prima accoglienza – quali luogo in cui il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale possa condurre la verifica del rispetto degli adempimenti connessi a diritti dello straniero.
Secondo i dati resi noti nella Relazione sul funzionamento del sistema di accoglienza di stranieri nel territorio nazionale, riferita all’anno 2019 trasmessa a fine dicembre 2020 dal Ministero dell’interno al Parlamento (Doc. LI, n.3), risultano attivi quattro hotspot ubicati a Lampedusa, Pozzallo, Messina e Taranto.
Nonostante la configurazione giuridica, ad avviso della Commissione di inchiesta sul sistema di accoglienza istituita alla Camera nella XVII legislatura, che ha approvato una Relazione sul sistema di identificazione e di prima accoglienza nell’ambito dei centri «hotspot » (Doc. XXII-bis, n. 8), l’applicazione dell’approccio «hotspot» in Italia presenta numerose criticità, a partire dalla insufficiente capacità di accoglienza dei centri rispetto al numero di persone che varcano illegalmente le frontiere nazionali.
Il clima di sospetto verso le navi delle Ong – È cominciato il 15 dicembre del 2016 con un articolo del Financial Times, quando il quotidiano britannico é venuto in possesso di un rapporto riservato di Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere esterne, che denunciava dei presunti legami tra i trafficanti di esseri umani e le imbarcazioni delle organizzazioni umanitarie.
Le ipotesi del Financial Times sono state rafforzate da alcune dichiarazioni del direttore di Frontex, Fabrice Leggeri, che qualche settimana dopo in un’intervista a Die Welt ha accusato le Ong “di spingersi troppo vicino alle coste libiche: “Dobbiamo evitare di sostenere il business dei trafficanti andando a prendere i migranti davanti alle coste libiche”.
La presenza delle navi umanitarie a 12 miglia dalle coste, secondo un rapporto di Frontex, avrebbe indotto i trafficanti a usare mezzi di trasporto più economici e più pericolosi come i gommoni di plastica, invece dei pescherecci usati in passato per la traversata.
Le operazioni in prossimità della costa “inducono i trafficanti a una pianificazione e agiscono da pull factor, aggravando le difficoltà legate al controllo delle frontiere e al salvataggio in mare”.
Secondo Riccardo Gatti di “Proactiva open arms”, “i trafficanti usano sempre più spesso i gommoni al posto delle barche di legno e di ferro perché con l’operazione Sophia di EunavforMed, lanciata nel 2015, c’è stata una campagna per distruggere le imbarcazioni di ferro e legno, così le organizzazioni criminali sono passate ad altri mezzi di trasporto più economici”.
I sospetti di Frontex sono stati ad ogni modo accolti dalla procura di Catania, città in cui ha sede l’agenzia europea per il controllo delle frontiere, che a sua volta ha aperto un’indagine conoscitiva – senza indagati né capi di accusa – sull’origine dei finanziamenti che permettono alle ong di sostenere le loro attività di ricerca e soccorso in mare.
L’indagine è stata ripresa da diversi mezzi d’informazione italiani che ne hanno amplificato la portata, mentre alcuni senatori della Lega nord e di Forza Italia hanno chiesto alla commissione difesa del senato di aprire un’indagine conoscitiva sull’operato delle organizzazioni umanitarie nel Mediterraneo centrale.
Qualcosa è così cambiato nell’opinione pubblica europea: in pochi mesi si è passati da un atteggiamento generalmente favorevole a un clima di sospetto.
Oltre al procuratore di Catania, Carmelo Zuccaro, e all’ammiraglio dell’operazione Sophia, Enrico Credendino, il 12 aprile 2017 la commissione di palazzo Madama ha ascoltato Riccardo Gatti, coordinatore dell’Ong spagnola “Proactiva open arms”.
Gatti è stato il primo rappresentante di un’Ong a essere ascoltato dai senatori in una serie di audizioni.
“Non avrei mai immaginato di dover spiegare a dei senatori della repubblica del mio paese l’attività di soccorso in mare, attività che svolgiamo seguendo le regole del diritto internazionale e soprattutto l’esempio della guardia costiera italiana che compie salvataggi in mare da vent’anni”, ha detto Gatti, subito dopo il suo colloquio con la commissione difesa del senato.
“Ci hanno accusato di favorire il business dell’accoglienza e di farlo per un’ideologia politica. Ma la verità è che se non ci fossero dei morti in mare noi non saremmo lì”.
Secondo Gatti le accuse contro le Ong servono a negare “che le persone continuano a morire”.
Infatti l’area di intervento è molto vasta e il mare è insidioso: “Se ci spostassimo dalle attuali 12 miglia marittime dalle coste libiche alle 30 miglia marittime, lasceremmo senza presidio e senza soccorsi 600 miglia quadrate di mare, un’area vastissima dove le persone continuerebbero a morire”.
Marco Bertotto di “Medici senza frontiere” spiega che la “retorica del fattore di attrazione” non è una cosa nuova: “È la stessa che ha portato alla chiusura della missione di ricerca e soccorso Mare nostrum, serve per giustificare in generale un abbassamento degli standard di accoglienza”.
Tuttavia, secondo Bertotto, non si basa su evidenze scientifiche: “I numeri non forniscono nessuna prova del fatto che esistano delle connessioni tra la presenza dei mezzi di soccorso e il numero delle partenze dalla Libia”, spiega Msf.
Decreto Salvini su sicurezza e immigrazione – Sotto il Governo Conte 1 (1 giugno 2018-5 settembre 2019) è stato approvato decreto-legge n. 113 del 4 ottobre 2018, coordinato con la legge di conversione n. 132 del 1 dicembre 2018, recante «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata».
Il provvedimento è intervenuto al fine di eliminare la sproporzione tra il numero di riconoscimenti delle forme di protezione internazionale già disciplinate a livello europeo, come lo status di rifugiato e la protezione sussidiaria, ed il numero di permessi di soggiorno rilasciati per motivi umanitari, eliminando la discrezionalità nella concessione della tutela umanitaria, ed introducendo una tipizzazione dei casi di tutela, con indicazione di specifici requisiti per i soggetti richiedenti.
Nei casi di rischio in cui il soggetto richiedente potrebbe incorrere come conseguenza del provvedimento di espulsione le Commissioni territoriali potranno valutare la sussistenza di altri presupposti ostativi al respingimento.
Prevedeva una specifica procedura per le domande presentate alla frontiera dopo che il cittadino straniero era stato fermato per avere eluso o tentato di eludere i controlli, con la previsione del trattenimento dei richiedenti asilo al fine di accertare l’identità o la cittadinanza del richiedente.
È stato ampliato il numero di reati che, in caso di condanna definitiva o nell’ipotesi di imputato ritenuto pericoloso socialmente, comportano la revoca o il diniego della protezione internazionale.
Per queste tipologie di reati prevedeva, in caso di condanna in primo grado, la sospensione del procedimento per la concessione della protezione e l’espulsione del cittadino straniero.
Sono state introdotte particolari misure urgenti per assicurare l’effettività del provvedimenti di rimpatrio per i cittadini stranieri che non possiedano titolo per soggiornare nel nostro Paese, con un prolungamento da 90 a 180 giorni della durata massima del trattenimento dello straniero nei Centri di permanenza per il rimpatrio.
Il Patto mondiale per una migrazione sicura, ordinata e regolare , in sigla GCM (Global Compact for Migration) – È un accordo e negoziato intergovernativo, preparato sotto gli auspici delle Nazioni Unite, che copre tutte le dimensioni della migrazione internazionale in modo olistico e completo.
Il patto è stato formalmente approvato dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 19 dicembre 2018: poiché il Patto non è un trattato internazionale, non sarà vincolante ai sensi del diritto internazionale.
È stato firmato da 164 paesi in una conferenza delle Nazioni Unite tenutasi a Marrachec (Marocco) il 10 e l’11 dicembre 2018.
La stipula del patto è stata seguita il 19 dicembre dall’approvazione da parte della assemblea plenaria, con:
- 152 voti favorevoli,
- 12 astenuti (fra i quali l’Italia)
- 5 contrari: Israele e Stati Uniti, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia.
Tuttavia, come nel caso di accordi analoghi delle Nazioni Unite, è diventato un impegno politicamente vincolante e comunque un aiuto nell’interpretazione della legislazione sull’immigrazione.
La decisione della Corte Costituzionale sul decreto Salvini su sicurezza e immigrazione – Con la sentenza 186 del 9 luglio 2020, infatti, la Corte ha dichiarato l’incostituzionalità di una delle limitazioni più irragionevoli del decreto Salvini, il divieto d’iscrizione anagrafica per i richiedenti asilo.
Tale divieto, giustificato dalla transitorietà della richiesta d’asilo, è stato ritenuto dalla Corte in contrasto con le stesse finalità di controllo e ‘sicurezza’ previste dal dettato normativo, costituendo una disparità di trattamento che impedisce ai richiedenti asilo l’accesso ai benefici a livello amministrativo che l’iscrizione anagrafica comporta (quali la possibilità dell’emissione di carta d’identità), senza che tuttavia tale pregiudizio appaia ragionevole:
“Escludendo dalla registrazione anagrafica persone che invece risiedono sul territorio comunale, la norma censurata accresce, anziché ridurre, i problemi connessi al monitoraggio degli stranieri che soggiornano regolarmente nel territorio statale anche per lungo tempo, in attesa della decisione sulla loro richiesta di asilo, finendo per questo verso col rendere problematica, anziché semplificare, la loro stessa individuazione a tutti i fini, compresi quelli che attengono alle vicende connesse alla procedura di asilo.”
Il Decreto Lamorgese – Sotto il Governo Conte II (5 settembre 2019-13 febbraio 2021) il Ministro dell’Interno Luciana Lamorgese ha preso atto della censura d’illegittimità costituzionale, prevedendo in via esplicita la possibilità di iscrizione anagrafica dei richiedenti asilo e la possibilità per i Comuni di rilasciare a tali individui carta d’identità della durata di 3 anni e non valida per l’espatrio.
Il nodo centrale del decreto Lamorgese è il ritorno di una terza misura di protezione, denominata protezione speciale: la normativa prevede l’estensione del principio di non-refoulement al caso in cui non solo il soggetto rischi di subire tortura o trattamenti inumani nel luogo di espulsione, ma anche al caso in cui possa subire violazioni del diritto alla vita privata e familiare in tale Paese non giustificate da ragioni di sicurezza pubblica (ai sensi dell’art 8 CEDU).
Nei casi in cui la Commissione territoriale per il riconoscimento del diritto d’asilo ritenga sussistere l’obbligo di non-refoulement ma non siano presenti i requisiti per l’attribuzione di asilo politico o protezione sussidiaria, trasmette gli atti al questore per il rilascio di un permesso di soggiorno per protezione speciale.
Per tale pronuncia la Commissione dovrà tenere conto del caso specifico e di fattori quali i legami familiari del soggetto, il suo effettivo inserimento sociale e la durata della permanenza in Italia.
Il nuovo permesso di soggiorno, della durata di 2 anni, è convertibile nel permesso di soggiorno per motivi di lavoro e permette l’ingresso alle strutture per l’accoglienza che assumono il nuovo termine di SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione), distinto anche qui in due livelli differenti a seconda dei servizi previsti. Ai richiedenti asilo viene estesa la possibilità di accedere alle strutture SAI, nei limiti dei posti disponibili, ma solo alle strutture SAI in cui non sono previsti i servizi di integrazione e inclusione sociale già menzionati, e quindi i servizi che permettono ai beneficiari del programma di accedere a sussidi per l’autonomia abitativa oppure percorsi di formazione professionale. In questo caso, la disparità di trattamento tra il richiedente asilo e il titolare di protezione internazionale rimane inalterata.
Uno dei profili di maggior interesse della nuova normativa riguarda una possibile apertura alla categoria dei cd migranti ambientali, individui spinti alla migrazione forzata a seguito di gravi e intollerabili modifiche alle condizioni ambientali del proprio luogo d’origine quali gli effetti del cambiamento climatico.
A tale categoria di individui non è tendenzialmente riconosciuto il diritto a misure di protezione.
Il presupposto per il rilascio di un permesso di soggiorno per calamità naturale, infatti, è lo stato di calamità “eccezionale e contingente” nel Paese d’origine e dunque un fenomeno grave ma transitorio quale, ad esempio, un grave terremoto.
Sostituendo il requisito della eccezionalità e della contingenza con la semplice “gravità” della situazione nel proprio Paese d’origine, il decreto Lamorgese ha allargato lo spettro delle situazioni riconducibili allo stato di calamità naturale, potenzialmente estendendo l’ambito di applicazione di tale protezione anche al caso dei migranti climatici qualora le modifiche all’ecosistema del Paese d’origine possano essere ritenute “gravi”.
Il decreto Lamorgese, modificando le disposizioni più rigide, ha comportato di fatto un (parziale) ritorno alla disciplina previgente, legato al mutato panorama politico ma non privo di contraddizioni.
Se certamente ha segnato l’inizio di una fase di allargamento del diritto all’accoglienza in Italia, non senza profili di grande interesse come la questione dei migranti climatici, ha lasciato irrisolti alcuni nodi critici da affrontare.
Tra le disparità di trattamento confermate dal testo si segnala l’impossibilità di accesso del richiedente asilo alle misure di integrazione e inclusione sociale, disparità di trattamento tanto più acuta se si considera la lunghezza della tempistica per la valutazione della domanda di protezione internazionale.
La domanda, infatti, deve essere valutata dalla Commissione territoriale competente e, in caso di rigetto, è prevista la possibilità di fare ricorso al Tribunale ordinario.
Ad ogni modo, la visione del “richiedente asilo” è specchio di una più generale concezione del fenomeno migratorio come situazione emergenziale e contingente.
In realtà, come suggerito dalle stime dell’ONU sul numero dei rifugiati nel mondo, le trasformazioni politiche e climatiche che stanno investendo la comunità mondiale suggeriscono una visione delle migrazioni come fenomeno non contingente, ma sistematico e destinato ad aumentare sempre più negli anni a venire.
L’accoglienza dei profughi ucraini – Da quando la Russia ha invaso l’Ucraina oltre 170.000 persone provenienti dal Paese in guerra sono arrivate in Italia (dato al 13 gennaio 2022).
Si tratta, nella maggioranza dei casi, di donne e minori, che hanno chiesto quasi tutti la protezione temporanea, come previsto dalla Direttiva UE 55/2021.
Il naufragio di Cutro – È avvenuto nella notte tra il 25 e il 26 febbraio 2023 a un caicco partito dalla Turchia e carico — secondo le testimonianze — di almeno 180 migranti. Il natante si arenò su una secca a poche decine di metri dalla costa di Steccato di Cutro, nei pressi della foce del fiume Tacina.
L’impatto con la secca espose l’imbarcazione già in difficoltà di navigazione alla violenza delle onde del mare tra forza 4 e forza 5, che rovesciarono e distrussero il natante.
A soccorrere per primi i naufraghi furono due pescatori del luogo, che sentirono il frastuono del disastro e le grida di chi era in difficoltà e allertarono i carabinieri e altra gente del luogo per correre in aiuto.
Nel buio più completo e al gelo della notte, i volontari e i carabinieri salvarono chi era ancora vivo, cominciando a estrarre dall’acqua numerosi corpi senza vita spinti verso la riva dalla violenza delle onde.
Il naufragio ha messo in evidenza una nuova rotta dei migranti provenienti dall’Afganistan e dalla Turchia (colpita da un tremendo terremoto nella nota tra il 5 ed il 6 febbraio 2023): ha portato altresì in risalto l’assistenza legale ai familiari delle vittime che c’è stata per la prima volta nei 2 processi penali tuttora in corso della Procura di Roma e di quella di Crotone.
La Procura di Crotone ha messo sotto inchiesta per omicidio colposo tre ufficiali della Guardia di Finanza e tre ufficiali della Guardia Costiera.
Il Decreto Cutro – Il Decreto-legge n. 20/2023 firmato simbolicamente a Cutro il 9 marzo 2023, dopo la tragedia consumata in mare lo scorso 26 febbraio, è stato convertito nella Legge n. 50 del 25 maggio 2023: prevede il taglio della protezione speciale, l’aumento dei centri per il rimpatrio con relativi tempi di detenzione e restringe l’accesso dei richiedenti asilo nel Sistema di accoglienza e integrazione (Sai).
Un giro di vite fortemente voluto dalla Lega e salutato al termine del voto con un applauso dai banchi del centrodestra.
Il provvedimento dovrà però essere subito corretto: il governo ha infatti approvato un ordine del giorno che lo impegna a intervenire per rimettere mano all’articolo 7 ter, introdotto al Senato, che rischia di creare problemi interpretativi che potrebbero precludere eventuali ricorsi contro le decisioni di inammissibilità delle domande di protezione internazionale.
Il problema era stato segnalato dal deputato di +Europa Riccardo Magi e successivamente messo in evidenza anche dal Comitato per la legislazione della Camera.
Il testo impegna la governo a «valutare gli effetti applicativi della disposizione» in questione «allo scopo di adottare, in tempi rapidi, le opportune iniziative normative».
Sempre il governo ha invece detto no a un altro ordine del giorno con cui il deputato Pd-Idp Arturo Scotto chiedeva di sopprimere il termine «razza» dai documenti della pubblica amministrazione.
La Lega con il decreto Cutro considera reintrodotti i decreti sicurezza varati in passato da Matteo Salvini.
Una volta effettuato un salvataggio in mare, ogni imbarcazione è tenuta a richiedere immediatamente un porto di sbarco al Centro di coordinamento marittimo e raggiungerlo senza indugio, evitando di effettuare altre operazioni, i cosiddetti salvataggi multipli.
Secondo il governo italiano è necessario distinguere tra salvataggi “occasionali”, a cui peraltro sono tenute tutte le imbarcazioni di qualsiasi tipo in caso trovassero naufraghi nelle vicinanze, e le sistematiche operazioni di salvataggio condotte dalla Ong, che costituirebbero una sorta di incentivo alle partenze dalle coste africane.
A supporto della sua tesi, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha citato un rapporto confidenziale redatto dall’agenzia Frontex, la Guardia di frontiera e costiera europea, e relativo al periodo tra gennaio e maggio 2021.
Alle organizzazioni è richiesto anche di fornire informazioni dettagliate sull’operazione condotta e soprattutto “informare le persone a bordo della possibilità di richiedere la protezione internazionale e, in caso di interesse, raccogliere i dati rilevanti da mettere a disposizione delle autorità“.
In pratica, si chiede alle Ong di cominciare a bordo delle navi le procedure di richiesta di asilo, qualcosa di incomprensibile per Till Rummenhohl, capo delle operazioni di Sos Humanity, una delle organizzazioni coinvolte.
“Durante la procedura di salvataggio, si vogliono chiedere informazioni sul proprio futuro a persone molto vulnerabili, molto confuse e traumatizzate.
A bordo non c’è la possibilità di informarle legalmente in modo corretto.
Non abbiamo nemmeno equipaggio a sufficienza per farlo.
Prevedere questo processo a bordo, per noi, è solo qualcosa di veramente disumano“.
Sulla stessa linea Nicola Stalla, vice-direttore delle operazioni di Sos Mediterranée: “La raccolta di dati sembra configurarsi come l’avvio di una procedura di identificazione, mentre le persone sono ancora in mare.
Cosa che è in contrasto con tutte le linee guida fornite dagli enti preposti, come l’Unhcr“.
Per le imbarcazioni che non rispetteranno queste regole sono previste multe da 10mila a 50mila euro e in caso di reiterazione della violazione si applica la confisca della nave, con le autorità che procedono immediatamente a sequestro cautelare.
“Per noi è una vergogna: ancora una volta, un codice di condotta unilaterale con delle richieste a noi, che obbediamo alle leggi internazionali e al diritto marittimo, mentre Paesi come l’Italia o Malta, e l’Unione Europea, ignorano questi diritti e queste leggi da anni“, attacca Till Rummenhol. “Una situazione un po’ strana: istituire un codice di condotta indirizzato solo alle Ong, mentre la politica viola le leggi“.
Venti organizzazioni non governative hanno sottoscritto una lettera di protesta contro il decreto, che a loro giudizio “aumenta le morti in mare“.
Giovanni Maria Flick ha chiarito che «è ovvio che assegnando porti di sbarco lontanissimi si vuole tenere occupate a lungo le navi umanitarie, impedendo loro di salvare altre vite».
Intervento del Consiglio d’Europa – In una lettera indirizzata al ministro dell’Interno italiano, Matteo Piantedosi il 2 febbraio 2023 la commissaria per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Dunja Mijatović, chiede al governo di considerare la possibilità di “ritirare il decreto legge sulle Ong, o adottare le modifiche necessarie per assicurare la piena conformità del testo agli obblighi del Paese in materia di diritti umani e diritto internazionale“.
La politica e attivista bosniaca esterna le sue “preoccupazioni per alcune regole contenute nel decreto“, che potrebbero ostacolare l’assistenza da parte delle organizzazioni non governative nel Mediterraneo centrale, con specifico riferimento alla possibilità di effettuare salvataggi multipli in mare.
Anche il Parlamento europeo ha chiesto chiarezza sul fatto che il decreto rispetti o meno il diritto comunitario e internazionale.
La commissione Libertà civili (Libe) dell’Eurocamera, presieduta dal socialista spagnolo Juan Fernando López Aguilar manderà una lettera alla commissaria Ylva Johansson sul tema.
Secondo la replica del Governo i timori sul decreto sono “infondati“.
Dunja Mijatović ha ribadito allora che, stando così le cose, “i comandanti delle Ong verrebbero meno agli obblighi di salvataggio sanciti dal diritto internazionale” e che “alle navi delle Ong sono stati assegnati, come porti sicuri, luoghi lontani nel centro e nord Italia“.
Infine, evidenziata “l’indeterminatezza della nozione di conformità ai requisiti tecnici contenuta nel decreto, che potrebbe portare a lunghe e ripetute ispezioni di sicurezza delle imbarcazioni delle Ong“.
Le preoccupazioni dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – Quando il provvedimento era ancora in discussione alle Camere, l’Organismo internazionale aveva inviato una nota tecnica di 9 pagine al governo italiano per sottolinearne alcune criticità, relativamente alla “normativa internazionale sui rifugiati e sui diritti umani”, “la fattibilità delle misure previste”, “l’impatto sul sistema d’asilo” e “lo spazio di protezione garantito a richiedenti asilo, rifugiati e persone apolidi”.
Palazzo Chigi, però, nel suo furore ideologico dai toni iconoclasti contro i migranti ha preferito marciare dritto, senza prendere atto di queste osservazioni, e a distanza di alcune settimane le Nazioni Unite hanno deciso di rendere pubbliche le proprie richieste.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, in sigla Acnur, ha ritenuto che i luoghi di trattenimento debbano avere “disponibilità di spazi aperti, possibilità di comunicare e ricevere visite e il diritto di essere informati delle norme vigenti” e “misure per la individuazione dei bisogni dei richiedenti asilo, dei minori e delle altre persone con esigenze particolari” e ciò non avverrebbe nemmeno a Lampedusa nell’hotspot di Lampedusa, fra i maggiori in Europa.
Lo scontro tra Italia e Francia sui migranti – Il 5 maggio 2023 il ministro dell’Interno di Parigi Gérald Darmanin, ha accusato la premier Giorgia Meloni di essere incapace di gestire l’immigrazione.
Gérald Darmanin vorrebbe che il governo italiano blindasse le frontiere in uscita verso la Francia, cosa che Roma non è evidentemente interessata a fare.
“Parole inaccettabili” per il ministro degli Esteri Antonio Tajani, che ha annullato una missione nel Paese prevista per quello stesso giorno.
Migrantificio, un nuovo crimine contro l’umanità – Il 22 aprile si è svolto il convegno «Migranticidio: un crimine contro l’umanità – Diritto di migrare, diritti dei migranti», promosso da Centro di Ricerca ed Elaborazione per la Democrazia, Giuristi Democratici e Mani Rosse Antirazziste.
È stato stabilito che la spinta dei dannati della terra non può fermarsi, perché sono in fuga da guerre, dittature, regimi corrotti, miseria endemica, sfruttamento di risorse, landgrabbing, carestie, disastri ambientali, crisi, che, in una parola, direttamente o indirettamente siamo noi, mondo occidentale, a provocare: la globalizzazione non è altro che un rapace neocolonialismo globale e la loro miseria non è che l’altra faccia, quella che non vogliamo vedere, della nostra vita di privilegio e spreco.
Occorre reagire, agire trovando le parole per dirlo: un nuovo crimine contro l’umanità viene da anni sistematicamente attuato.
E questo crimine sono le migliaia di morti, questa nebulosa di fantasmi che dal Mediterraneo risale al cuore dell’Europa, ammesso e non concesso che un cuore non di tenebra ce l’abbia.
Occorre dare un significante a questo sanguinoso significato che sempre più si diffonde e da anni ci è entrato nelle coscienze fino a diventare assuefazione e, ancora oltre, dipendenza: sono le migliaia di sacrifici umani su cui si basa il nostro benessere.
Occorre trovare le parole per identificare a livello giuridico il crimine contro l’umanità che viene quotidianamente commesso intorno a noi e cercare nel diritto esistente, a livello sia nazionale che internazionale, la normativa che possa inchiodare alle loro responsabilità penali le classi politiche che si succedono al governo, sia in Italia che in Europa e nel resto del mondo occidentale.
E se non basta il diritto esistente, avventurarsi verso nuove costruzioni giuridiche che rispecchino gli irrinunciabili valori della civiltà, acquisiti da Antigone in poi.
È sicuramente un programma ambizioso, forse visionario, ma occorre strapparsi i paraocchi con cui ci concentrano sul NOI/loro, sul loro che ci fanno la guerra e sul loro che ci invadono, occorre accettare la follia di una diversa prospettiva per ribaltare la routine della violenza e della sua accettazione a livello collettivo.
Come evitare il proseguimento del migranticidio – È di tutta evidenza che la “colpa” del migranticidio da sempre attribuita agli “scafisti” e/o ai “trafficanti di esseri umani”, nonché alle stesse Ong, appare fin troppo comoda quanto strumentale perché costituisce un alibi per non ammettere anche se non soprattutto precise “colpe” sia dell’Italia che degli altri Stati dell’Unione Europea.
Si può e si deve evitare il proseguimento del migranticidio in un solo modo: con la legalizzazione del flusso dei migranti, consentito con navi autorizzate e non più con mezzi di soccorso pericolosi, attraverso una periodica quanto sistematica regolarizzazione con i paesi africani di provenienza.
Non ci sarebbero più né scafisti né trafficanti di esseri umani né le navi delle Ong, a meno che vengano autorizzate: ma per arrivare a questo l’Unione Europea dovrà prima o poi riconoscere le proporzioni bibliche dell’esodo dei migranti e modificare conseguentemente il trattato di Dublino per ripartire le quote dei flussi in modo proporzionale all’interno di ogni Stato dell’Unione Europea.
La proposta di mediazione della Svezia – Sul tavolo dei governi dei Ventisette per sbloccare lo stallo sulla riforma delle regole Ue sulla migrazione e l’asilo e mettere al sicuro un accordo prima delle elezioni europee del prossimo anno, dopo decenni di stallo, sta spuntando una nuova ipotesi.
La novità, stavolta, sta tutta nella definizione, secondo criteri oggettivi, delle soglie per stimare «la capacità adeguata» di ogni Paese nell’accogliere i migranti, senza lasciare spazio a dubbi o interpretazioni, e stabilendo un «tetto annuale» che non andrebbe oltrepassato.
Il principio è ancora «oggetto di discussione», e – si apprende a Bruxelles – i contorni potranno essere definiti meglio prossimamente e discussi in preparazione della ministeriale dei titolari dell’Interno dell’8 giugno in Lussemburgo.
Mal’idea di concordare delle quote (che verrebbero applicate anche alle procedure di identificazione alle frontiere che fa scattare l’obbligo di registrare i migranti lì dove arrivano) starebbe prendendo corpo nelle stanze del Justus Lipsius, la sede del Consiglio dove si riuniscono i rappresentanti degli esecutivi Ue.
Soggetta a ulteriori interlocuzioni, l’idea sarebbe il pilastro attorno a cui ruota la proposta di mediazione messa a punto dalla presidenza svedese del Consiglio per superare il classico braccio di ferro tra la linea della solidarietà, portata avanti dall’Italia e dai Paesi del Mediterraneo riuniti nel cosiddetto club Med5 (con Grecia, Spagna, Malta e Cipro), e quella della responsabilità, a cui si appellano le capitali del Nord Europa per ribadire i doveri degli Stati di primo arrivo nella gestione dei flussi e nell’evitare i movimenti secondari dei richiedenti asilo negli altri Paesi Ue.
Nella ricerca dell’equilibrio, si legge nella bozza di compromesso, «si deve tenere conto della particolare posizione geografica degli Stati membri di frontiera».
Un assist non da poco per l’Italia e gli altri Paesi mediterranei, sulle cui coste avvengono gli sbarchi, e che sarebbero tra i primi a beneficiare del meccanismo della solidarietà obbligatoria “o ricollochi o paghi” su cui l’Ue è al lavoro da circa un anno.
IL COMPROMESSO – In nessun caso, però, la proposta svedese riporta in vita le ridistribuzioni obbligatorie su cui si è spaccata l’Europa nello scorso decennio e su cui era intervenuta di recente la stessa ministra della Migrazione Maria Malmer Stenergard per sgombrare il campo dagli equivoci alla luce del no secco, in particolare, della Polonia: «I ricollocamenti obbligatori non sono né saranno nella nostra proposta».
Insomma, verosimile pensare che tanto Varsavia quanto Budapest preferiranno versare contributi finanziari anziché accogliere migranti, mentre un’apertura di massima ai ricollocamenti ordinati potrebbe essere espressa da Parigi e Berlino.
L’obiettivo della Svezia è accelerare nella ricerca del compromesso tra i Ventisette e definire la posizione dei governi sul Patto Ue per la migrazione e l’asilo già nel prossimo mese di giugno.
In modo da cominciare i negoziati con il Parlamento europeo senza ritardi e puntare all’adozione della riforma entro la primavera prossima, alla vigilia della fine dell’attuale legislatura europea.
La “solidarietà obbligatoria” – Per sbloccare lo stallo sulla riforma delle regole sulla migrazione è ora allo studio della Ue la “solidarietà obbligatoria”, che prevede che chi non accoglie migranti dovrà pagare agli Stati di frontiere (tra cui l’Italia) circa 22.000 euro per ogni migrante non ricollocato: potrà pure vedersi negata la possibilità di rimpatriare i richiedenti asilo verso gli stessi Paesi di primo arrivo, a titolo di compensazione della propria inerzia.
L’asilo funzionerebbe proprio così, con il ricorso alla redistribuzione che rimane volontario in capo alla Stati membri e può, in alternativa, essere rimpiazzato da un sostegno finanziario o logico-operativo a chi è in prima linea, alla luce di un “tetto” annuale della capacità di accoglienza da determinare secondo criteri oggettivi.
Superata questa soglia, per lo Stato verrebbe meno l’obbligo di applicare le procedure di frontiera e di identificazione dei migranti.
La trattativa è in corso ed ha fatto già emergere i nodi di scontro che contrappongono il blocco orientale (Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca) al resto dell’Unione e in particolare al compatto fronte comune del “Med5”, il club informale dei cinque Paesi del Mediterraneo che mette insieme Italia, Spagna, Grecia, Malta e Cipro.
La posizione italiana sul nuovo Piano Migranti – in attesa dell’incontro fissato in Lussemburgo per il prossimo 8 giugno, il Ministro Matteo Piantedosi ha ribadito che la linea del governo “é orientata prioritariamente ad iniziative finalizzate al blocco delle partenze ed all’aumento dei rimpatri, attraverso il rafforzamento anche in ambito europeo dei rapporti di collaborazione bilaterale già intrapresi dall’Italia“.
La strada che dovrebbe portare alla fine del migranticidio è ancora lunga.
Dott. Arch. Rodolfo Bosi