Maurizio Veloccia con Roberto Gualtieri (foto di archivio)
C’è una Roma che è nata e cresciuta fuori da ogni piano regolatore.
Insediamenti spontanei che l’amministrazione capitolina dal 1976 ha faticosamente definito, delimitato ed elencato per poi chiamarli “zone O”, quartieri ex abusivi.
Il rapporto tra queste realtà, circa un’ottantina in base alla classificazione, e i vari governi romani non è mai stato semplice.
Soprattutto nell’ultimo decennio.
A preoccupare i sindaci è stata soprattutto la modalità di gestione dei piani di recupero, cioè la realizzazione di opere primarie altrimenti inesistenti.
La patata bollente dal 2022 è passata nelle mani di Roberto Gualtieri e del suo assessore all’urbanistica Maurizio Veloccia, a maggior ragione da quando anche l’Anac, l’agenzia anticorruzione, ha deciso di vederci chiaro.
Per spiegare cosa sta succedendo, raccontiamo la storia sin dall’inizio.
Il recupero dei quartieri ex abusivi
Le prime associazioni consortili di recupero urbano sono nate a Roma negli anni ’80, diventando operative in maniera strutturata a metà anni ’90.
Già da tempo nella Città Eterna gli esperti di urbanistica e gli amministratori pubblici si stavano ponendo il problema di come si potessero realizzare una serie di opere primarie, all’interno degli insediamenti nati disordinatamente.
Cioè abusivamente.
Un processo che, nei vent’anni successivi, ha permesso la costruzione di strade, lampioni, fogne e marciapiedi lì dove prima non c’era nulla.
Poi, però, qualcosa è andato storto.
Cosa sono le ACRU nel “mirino” di Anac
Le ACRU, acronimo che sta a significare Associazione Consortile di Recupero Urbano, sono realtà costituite da cittadini.
Spesso e volentieri si tratta di comitati di quartiere che hanno aperto un nuovo soggetto, gestito da un presidente e da un comitato direttivo e animato da soci.
Lo scopo, che si è delineato in maniera ufficiale già nel 1997 con l’approvazione in consiglio comunale del cosiddetto “Piano delle certezze”, era quello di realizzare o anche portare a compimento servizi inesistenti o parzialmente realizzati nei quadranti nati abusivamente.
Da Selvotta a Fosso dell’Osa, da Tragliatella a Vermicino a Ponte di Nona, solo per citare una piccola parte delle circa 80 “zone O” individuate tra la fine degli anni 90 e i primi anni Duemila dal Comune.
Le opere nelle periferie ex abusive
In quegli stessi anni, un ordine del giorno del consiglio comunale diede la possibilità alle ACRU di realizzare le opere di urbanizzazione primaria (in seguito anche secondaria, vedi le scuole) sulle aree private aperte al pubblico transito.
Vale a dire strade non di proprietà comunale sulle quali, sovente, insistono gli interessi di decine se non centinaia di cosiddetti “frontisti”, imprese e cittadini privati.
Ed è qui che affondano le radici di un’istruttoria che l’Anac, l’agenzia anticorruzione nata durante il Governo Renzi allo scopo di prevenire e scovare illeciti all’interno di grandi appalti, ha messo in piedi nel 2018.
Ed è sul tavolo dell’assessore all’urbanistica Maurizio Veloccia, che entro il 31 luglio dovrà relazionare sulle modalità di affidamento delle opere non solo nelle periferie ex abusive, ma anche nei piani di zona.
Come funzionavano (e funzionano) le associazioni consortili
Tornando all’inizio della storia, quindi a trent’anni fa, spieghiamo cosa è successo.
Partendo dalle procedure, al centro del dibattito e del mirino di Anac.
Per capirlo meglio, abbiamo chiesto aiuto a Fabrizio Scorzoni, presidente dell’AIC e per anni amministratore nel VI municipio, ai tempi VIII.
“Le associazioni consortili hanno sempre funzionato in questo modo – spiega – : in maniera del tutto facoltativa, cittadini e costruttori versavano gli oneri concessori, invece che nelle casse comunali, in quelle dell’ACRU.
Dopodiché si svolgevano due assemblee pubbliche di soci, a conferma della volontà di procedere ad un determinato intervento, che fosse una strada o una fogna.
Il Comune chiedeva la predisposizione di un progetto, che passava per una conferenza dei servizi che lo approvava, insieme al capitolato d’appalto.
Fino al 2019, il Consorzio poteva procedere all’indizione di una gara d’appalto, scritta e gestita da un notaio che poi si occupava di recepire le offerte delle ditte e di aprire le buste, scegliendo la migliore.
All’epoca il codice appalti ammetteva il maggiore ribasso.
Il verbale successivo, stilato sempre dal notaio, veniva trasmesso all’allora esistente dipartimento Periferie che doveva verificare la congruità dell’offerta e in caso di dubbi o criticità, si chiedevano integrazioni o chiarimenti alla ditta vincitrice.
Con l’ok definitivo, si affidava il cantiere“.
L’ok del Comune ai pagamenti
Ovviamente, prima di tutto si nominavano un progettista e un direttore dei lavori: “La figura del progettista – specifica Scorzoni – veniva retribuita solo dopo il passaggio in conferenza dei servizi, cosa ad oggi impossibile.
E le ACRU lo facevano con la prima tranche di contributi approvati dal Comune, cioè il 40%.
Il restante 60% era diviso in una metà durante lo svolgimento dei lavori, con una verifica fatta da tecnici dipartimentali e l’altra a lavori conclusi.
Per evitare di pagare tutto, non avendo però le opere fatte bene, le ACRU erano solite trattenere una quota di circa il 10% che veniva riconosciuta alla ditta costruttrice solo a collaudo avvenuto con successo. Finito il collaudo, l’opera passava al dipartimento patrimonio del Comune“.
Lo stop ai lavori
Ed è qui che, ad un certo punto, la macchina si è inceppata.
Scorzoni ha ben chiara di chi sia la responsabilità: “L’alba dei problemi si è vista con Ignazio Marino – sottolinea – ma si è accentuato tutto con l’arrivo dei Cinquestelle.
Per 26 anni non abbiamo avuto denunce, rinvii a giudizio, sospetti, arresti.
Nulla.
Però qualcuno decise che bisognava buttarci la croce addosso.
Non avevamo nemmeno contenziosi aperti con le ditte.
Addirittura nel 2014, quando l’Anac era stata appena creata, ebbi modo di scambiare alcune parole con l’allora presidente, Raffaele Cantone: non sapeva neanche cosa fossero le ACRU, anche perché era (ed è) un fenomeno quasi esclusivamente romano.
L’Anticorruzione si occupa di grandi appalti e grandi opere, dalle infrastrutture ferroviarie al MOSE di Venezia, tanto per fare un esempio.
Noi abbiamo fatto gare da qualche centinaio di migliaia di euro, non di più“.
Lo scontro con Raggi e Montuori
Nel 2019, l’allora assessore all’urbanistica Luca Montuori fece approvare in giunta una nuova delibera.
Come spiegava l’esponente del governo Cinquestelle a RomaToday, in base all’atto le ACRU “dovranno costituirsi in modo formale come associazioni paragonabili a vere e proprie imprese.
Dovranno pubblicare i bilanci, aprire siti web e rispettare obblighi di trasparenza rispetto alle attività svolte“.
Insomma, essere vere e proprie stazioni appaltanti.
Una delibera bocciata dalla commissione urbanistica, osteggiata dalle stesse ACRU e modificata parzialmente due anni dopo.
Modifiche che non hanno fatto cambiare posizione al coordinamento delle periferie, cioè dei consorzi, inasprendo lo scontro con la sindaca Virginia Raggi, l’assessore Montuori e l’allora delegata alle periferie, la giornalista Federica Angeli.
Il nodo delle strade private ad uso pubblico
A mettere i bastoni tra le ruote degli interventi di completamento delle aree ex abusive, però, non c’è stata solo la scelta del governo Cinquestelle di regolamentare diversamente il lavoro delle ACRU.
Ma anche (probabilmente una diretta conseguenza) la mancata volontà del Comune di acquisire strade private aperte al transito pubblico sulle quali erano state realizzate le opere.
“L’amministrazione ha iniziato a porre il veto sull’acquisizione non avendone la proprietà – spiega ancora Scorzoni – e ha chiesto che si creasse una servitù di passaggio. Il problema è che su ogni strada privata insistono decine se non centinaia di frontisti e basta che uno solo si rifiuti di andare dal notaio e firmare la cessione e salta tutto.
E nelle periferie di Roma l’80% sono strade private aperte al pubblico transito.
Così si è paralizzato il recupero delle periferie ex abusive“.
Per capire la dimensione del problema, basti fare l’esempio di Selvotta-Monte Migliore, nel IX municipio, un insediamento urbano nato abusivamente: via Capodrise, dove passano gli autobus del trasporto pubblico locale, è una strada privata a uso pubblico.
Dissestata da anni, non gode dell’intervento municipale poiché, come spiegava l’assessora locale Paola Angelucci “nessun direttore firmerebbe lo stanziamento di fondi su una strada non acquisita al Patrimonio“.
Una possibile soluzione
“Da tre anni, insieme alla presidente dell’Aula Svetlana Celli e al presidente della commissione lavori pubblici Antonio Stampete – conclude Scorzoni – stiamo lavorando a una proposta di delibera che supererebbe questo enorme scoglio.
In sostanza prevede che, dove ci siano opere primarie realizzate su strade private aperte al pubblico transito, la servitù di passaggio sia obbligatoria, con l’impossibilità da parte dei frontisti di retrocedere la proprietà.
Così si permetterebbe all’amministrazione e ai sottoservizi, vedi Acea o Italgas, di intervenire liberamente.
Ma non ci sarebbe alcun obbligo da parte del Comune.
Poi, che Roma Capitale non abbia tutti i fondi necessari per mettere mano a tutte le strade in queste condizioni è un altro paio di maniche, ma a quel punto si procederebbe in base alle priorità. Io, da presidente di municipio, feci asfaltare una strada privata.
Nessuno me l’ha mai contestato“.
Le carte “introvabili“
Tornando all’attualità, la richiesta dell’Anac all’amministrazione Gualtieri e all’assessore Veloccia è quella di dare conto di quanto fatto a livello di affidamento di lavori e completamento delle opere proprio in quegli anni di cui abbiamo raccontato.
Un problema non da poco.
Veloccia ha esplicitato l’impossibilità a reperire tutte le carte relative a ogni singolo appalto: “Il Comune però ha degli obblighi di conservazione delle documentazioni – ricorda Scorzoni – e di quanto fatto per vent’anni nelle periferie dalle ACRU c’è tutto.
Verbali notarili e certificazioni.
Poi il problema qual è?
Che l’Anticorruzione chiede oggi anche carte che all’epoca non erano richieste, perché ci si muoveva in base a ordini del giorno e delibere che erano valide allora, non più adesso.
L’errore fu quello di chiudere il dipartimento periferie e trasformarlo in un ufficio dove ora lavorano un dirigente e forse tre dipendenti che non riescono a stare dietro alla mole di lavoro e succede che sia io, che ho un archivio enorme di tutto quanto realizzato dalle ACRU, a fargli avere le carte“.
Lo sblocco delle opere
Come spiegato già da Veloccia, da due anni a questa parte il Comune sta chiedendo indietro i fondi rimasti fermi nelle casse dei Consorzi, per prendersi l’onere di portare avanti le opere.
Alcune sono in corso, altre inizieranno.
Ad oggi sono stati sbloccati 25 milioni di euro di interventi nelle periferie ex abusive: da Fosso dell’Osa (1,6 milioni) a Tragliatella ( 1,1 milioni) a Cava Pace (1,3 milioni).
Ma anche a Centrone, Lucrezia Romana, Vermicino, Madonnetta-Macchia Palocco, Piana del Sole, Massimina, Villaggio Prenestino, Pian del Marmo, Castel di Leva.
(Articolo di Valerio Valeri, pubblicato con questo titolo il 27 giugno 2024 sul sito online “Roma Today”)
Vi siete rivolti a Scorsoni, dotato di memoria di parte, la storia non è così. Io sono stato il primo Presidente del Consorzio “Case Rosse 2” (costituito il 26/07/1996). I Consorzi per le opere a scomputo, sono stati operativi dal 1996 al 2006. Creati da Unione Borgate, AIC(Associazione Italiana Casa) Anacipe ed altri, dovevano pagare un 15% alla Associazioni che fornivano l’Assistenza notarile ed affidavano gli appalti a prezzi doppi del mercato. La riprova è che le cosidette opere a scomputo furono bloccate dalla Giunta Comunale presieduta da W. Veltroni nel 2006.
Federica Angeli, per conoscere il problema è stata da me per più di una settimana.
Disponibile a fornire qual si voglia documentazione.