Dieci pagine scritte dal ministero dell’Intelligence israeliana, destinate al governo di Tel Aviv, nelle quali è riportato un piano che prevede la deportazione di 2,3 milioni di palestinesi dalla Striscia di Gaza nella penisola del Sinai in Egitto, attraverso il valico di Rafah.
L’espulsione degli abitanti del lembo di terra tra i più densamente popolati al mondo, da settimane sotto le bombe israeliane, sarebbe la conseguenza “necessaria” delle operazioni di guerra avviate dall’Idf e seguite al brutale assalto di Hamas del 7 ottobre nel Sud di Israele.
Quello descritto dal dossier ministeriale, datato 13 ottobre 2023 e recante il logo del dicastero – un piccolo ente governativo che produce ricerche politiche da condividere con le agenzie di intelligence, l’esercito e altri ministeri -, è uno scenario raggelante per il quale il territorio palestinese andrebbe evacuato per la “sicurezza di Israele”, come riporta la webzine israeliana +972 Magazine, che pubblica il documento integralmente.
Le tre ipotesi per il dopo guerra
Il documento elabora tre ipotesi riguardo il futuro della popolazione di Gaza, privilegiando tra queste il loro trasferimento fuori dai confini della Striscia per il quale sarà necessario che Tel Aviv “mobiliti la comunità internazionale a sostegno di questa operazione“.
Parallelamente si chiede al governo di mettere in campo una campagna per “motivare gli abitanti di Gaza” ad abbandonare le loro case.
L’operazione “garantirebbe al meglio gli interessi di Israele“, si legge nel documento la cui esistenza e autenticità è stata confermata dal ministero.
Questo però, sottolinea +972 Magazine non significa che il piano in esso contenuto sarà adottato da Israele, in virtù del fatto che l’ente governativo produce studi ed esercita una sorta attività di consulenza che non necessariamente si traduce ogni volta in azioni di governo.
E’ interessante in ogni caso analizzare il documento sulla base di quanto sta accadendo nella striscia di Gaza, dopo il feroce attacco di Hamas a Israele e la devastante risposta dell’esercito che, tra le bombe e l’assalto di terra appena iniziato, ha già causato oltre 8.500 morti, di cui oltre un terzo sono bambini.
Poi è chiaro, come detto e ripetuto da molti organi di stampa, che per il governo guidato da Netanyahu non sarà semplice gestire il dopo di una guerra che, ha promesso, andrà avanti “fino alla totale distruzione di Hamas“.
Va fatta una premessa: nonostante, come detto, il documento non esprima posizioni che necessariamente influenzeranno le politiche di Tel Aviv, resta il fatto che il livello ministeriale dello studio e la sua diffusione nel governo e alle agenzie di sicurezza, ancorché non ancora ai funzionari statunitensi, ne fanno un tema centrale di discussione politica.
Il ministero in questione ha una sua dotazione finanziaria annua, ammontante a circa 25 milioni di shekel, ovvero circa 5 milioni di euro, ed è guidato dalla ministra Gila Gamliel, appartenente al partito di destra Likud e molto vicina a Netanyahu.
Nel documento sono ipotizzati tre scenari.
Il piano: deportare i palestinesi nel Sinai
Il primo prevede che la popolazione di Gaza resti nella Striscia sotto la guida dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), mentre il secondo si orienta verso l’emersione di “un’autorità locale” diversa dall’Anp e, ovviamente, da Hamas.
Il terzo scenario è quello raccomandato e, come detto, prefigura la deportazione degli oltre due milioni di palestinesi verso l’Egitto.
Il piano di trasferimento è articolato in più fasi: nella prima la popolazione di Gaza dovrà essere “sgombrata verso sud“, mentre gli attacchi dell’aeronautica si concentreranno sulla parte settentrionale della Striscia.
Nella seconda fase inizierà l’ingresso via terra dell’esercito, che porterà all’occupazione dell’intera Striscia, da Nord a Sud, e alla “pulizia dei bunker sotterranei dai combattenti di Hamas“.
“È importante – dice ancora il documento – lasciare utilizzabili le corsie di traffico verso Sud, per consentire l’evacuazione della popolazione civile verso Rafah“.
A questo punto i palestinesi ammassati nel Sud della Striscia si trasferirebbero nel Sinai.
Qui si dovrebbero realizzare degli immensi campi profughi e costruire delle città – insediamenti permanenti – nelle quali i palestinesi possano stabilirsi per sempre.
Non verrebbe permesso loro in nessun caso il rientro nelle case e terre che gli erano appartenute e perché ciò sia garantito è prevista “la creazione di una zona cuscinetto lungo tutto il confine con l’Egitto” in maniera tale da prevenire i tentativi di rientro.
A garanzia dell’operazione, spiega il piano, dovrebbe intervenire una forza internazionale guidata dagli Stati Uniti.
Perché preferire la terza opzione
Le prime due opzioni comporterebbero, secondo il ministero dell’Intelligence, non poche implicazioni strategiche e comunque tra le due la peggiore viene indicata come quella che prevede la guida politica dell’Anp che, inevitabilmente, condurrebbe i gazawi verso la nascita di uno Stato palestinese.
“La peggiore delle ipotesi” quindi che non produrrebbe il “necessario effetto deterrente“, e non consentirebbe “un cambiamento di mentalità, portando nel giro di pochi anni agli stessi problemi e minacce che lo Stato di Israele si è trovato ad affrontare dal 2007 a oggi“.
“Non è possibile che il risultato di questo attacco (il riferimento è al massacro di Hamas del 7 ottobre, ndr) sia una vittoria senza precedenti per il movimento nazionale palestinese“, la qual cosa “aprirà la strada alla creazione di uno Stato indipendente“, si legge infatti nel documento.
Quindi la popolazione di Gaza va convinta che l’unica soluzione sia lasciare la Striscia, cosa che in costanza di guerra e bombardamenti può essere gestita per “fini umanitari“.
Contemporaneamente agli Usa spetterebbe il compito di fare pressione sull’Egitto per l’accoglienza dei profughi e anche Stati come il Canada, la Spagna o la Gracia potrebbero farsi carico di una parte dei palestinesi fuoriusciti da Gaza.
Dopo settimane di notizie secondo cui gli Stati Uniti premevano per la possibilità di trasferire i palestinesi in Egitto attraverso un “corridoio umanitario”, il presidente americano Joe Biden ha affermato due giorni fa che lui e Al Sisi erano impegnati a “garantire che i palestinesi a Gaza non si spostino in Egitto o in qualsiasi altra nazione”.
Per ora il presidente egiziano, concede l’apertura del valico di Rafah solo per l’ingresso nella striscia di aiuti umanitari e personale della Croce Rossa.
Resta la convinzione che l’opposizione più forte a una simile volontà arriverebbe da molti governi, in primis quelli arabi, ma anche da molti della cosiddetta area occidentale, dove l’opposizione dei cittadini al genocidio dei civili palestinesi sta già facendosi sentire e per i quali sarebbe difficile convincere l’opinione pubblica della bontà di una soluzione di questo tipo.
(Articolo di Antonella Loi, pubblicato con questo titolo il 31 ottobre 2023 sul sito online “Tiscali.it”)